Gli scrittori italiani scoprono l’America

L’America è per l’Europa e ancor più per l’Italia modello di confronto ed esempio. La scoperta dell’America letteraria per Vittorini, Pavese, Bassani ed altri, durante il fascismo e dopo, fu occasione non solo di lavoro ma anche di libertà in un territorio che sembrava il teatro dell’umanità, dove ogni storia aveva rappresentazione. Un nuovo Oriente favoloso da sognare e in cui evadere.

Intorno al 1930 comincia l’importazione della Coca-Cola in Italia. Al chinotto nazionale si affianca nei bar la nuova bevanda simbolo di refrigerio e di libertà. Negli stessi anni sugli scaffali delle librerie italiane fanno la loro comparsa scrittori come Melville, Steinbeck, Faulkner, Whitman, Caldwel, Saroyan, Lewis che, tradotti da altri scrittori, trovano posto tra i pilastri della letteratura italiana. Così, dopo secoli di straordinaria poesia e dopo aver assistito alla nascita del romanzo in chiave moderna, l’Italia andò alla ricerca della narrativa americana in corrispondenza, non a caso, all’ascesa del fascismo. Cesare Pavese cominciò a tradurre i capolavori della letteratura americana spinto dalla voglia di esplorare una terra a suo modo ancora vergine, primordiale, un mondo nuovo insieme fecondo e barbarico, appesantito dal passato europeo ma ancora innocente e con una freschezza inusuale. Difatti non si limita a tradurre ma discute anche, nel suo La letteratura americana e altri saggi, le ragioni e la necessità dell’importare questa narrativa d’oltreoceano: «Ci si accorse durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti […]. La cultura americana ci permise in quegli anni di vedere svolgersi come su uno schermo gigante il nostro stesso dramma [1]».

pavese
Cesare Pavese

La traduzione della narrativa statunitense negli anni del fascismo è motivata da una proiezione ricca di speranza rigenerativa, un bisogno di prendere una boccata d’aria al di là delle Colonne d’Ercole, esigenza che letterariamente poteva significare un modo concreto per sopravvivere al viaggio dell’Ulisse dantesco. Se la scoperta dell’America nel 1492 fu del tutto casuale, resa possibile da un imprevisto nel calcolo della navigazione, nel 1620 il nuovo mondo cominciò a diventare il luogo deputato per auto esiliarsi: «Sembra che i Padri Pellegrini fossero venuti dall’Europa pieni di delusioni e di stanchezza: per finire, non per cominciare.[…] Trovarono in America la necessaria ferocia per praticare quei pregiudizi feroci; essere in qualche modo vivi».  [2] Elio Vittorini, da traduttore anche lui, vede bene i due estremi di questa terra selvaggia: se da una parte è un luogo nuovo dove sfogare le proprie nevrosi ancestrali, dall’altra «l’America è una specie di nuovo Oriente favoloso, e l’uomo vi appare di volta in volta sotto il segno di una squisita particolarità, filippino o cinese o slavo o curdo, per essere sostanzialmente lo stesso: ‘io’ lirico, protagonista della creazione». [3]  Il fatto di essere un mondo in cui poter mettere in scena la propria recita umana ha portato molti intellettuali a vederne, durante il fascismo e dopo, il miraggio di una terra libera da tutte le costrizioni che si vivevano nella patria d’origine. Nella Prefazione ai saggi di Pavese, Italo Calvino coglie nell’idea di America le caratteristiche sopraelencate: «I periodi di scontento hanno spesso visto nascere il mito letterario di un paese proposto come termine di confronto[…]. Spesso il paese scoperto è solo una terra d’utopia, un’allegoria sociale che col paese esistente in realtà ha appena qualche dato in comune; non per questo serve di meno, anzi gli elementi che prendono risalto sono proprio quelli di cui la situazione ha bisogno. L’interesse per la letteratura degli Stati Uniti d’America sotto il fascismo può essere classificata sotto questa linea, ma ebbe caratteristiche diverse; non fu evasione e nemmeno contemplazione esemplare, fu punto d’arrivo stabilito».  [4] Stabilito il punto, ci si può indirizzare verso una meta.

elio vittorini
Elio Vittorini

Molti sono gli intellettuali che hanno scelto l’America come luogo dove risiedere per lunghi o brevi periodi. Il bisogno di liberarsi da certe strutture culturali o morali rimane in testa alle esigenze di chi cercava un modo diverso di espressione letteraria. Per esempio Giuseppe Prezzolini e Mario Soldati insegnarono alla Columbia University di New York, mentre Giorgio Bassani tenne corsi sulla sua opera in università della California, dell’Illinois e dell’Indiana. Bassani si trovava bene in America e lo si capisce leggendo le sue poesie della seconda metà degli anni Settanta (cfr. In gran segreto). Nei suoi viaggi lontano dall’Italia è lui stesso a confessare di sentirsi libero da certi schemi rigidi che lo limitavano nella scrittura e l’America gli appare così un rifugio nel quale poter trovare un modo diverso di comporre. Sfogliando le sue biografie si nota subito un forte interesse verso la letteratura americana che risale già agli anni Cinquanta. Nelle riviste “Botteghe Oscure” e “Paragone”, delle quali era redattore, pubblica scrittori come Hermann Melville, Emily Dickinson, Thomas S. Eliot, Truman Capote.
La traduzione della narrativa americana non è stato solo uno sfogo che andava a ricercare oltreoceano voci diverse e svincolate dai problemi politici italiani, ma «tradurre quei libri era molto polemico ed anche un po’ pericoloso, visto che alcuni di noi sono andati in carcere per averli tradotti». [5] Negli anni ‘50 Fernanda Pivano portava in Italia la Beat generation, grazie alla quale ancora una volta l’America esportava alternative e senso di libertà che hanno contribuito a crearne il mito. «Quei libri insegnavano un nuovo modo di vivere, oltre ad un nuovo modo di esprimersi: ce lo ricordiamo in tanti. La mia generazione […] si è trovata ad essere giovane in un mondo in cui i valori, la prosa, il linguaggio, le cose in cui credeva erano in totale crisi». [6]

bassani
Giorgio Bassani

Non possiamo che condividere e sentire ancora più che valide le parole della Pivano ai giorni nostri, dove ancora la letteratura americana riempie gli scaffali delle librerie italiane spesso sotto forma di grandi prodotti commerciali che si rifanno ai nostri miti letterari. Ed è così che per una sorta di contrappasso ormai l’Inferno più celebre sembra essere quello di Dan Brown, Coca-Cola della narrativa contemporanea che tenta di lasciarsi alle spalle il vecchio Dante, se mai potessimo paragonare il sommo poeta a un chinotto.

[1] Cesare Pavese, La letteratura Americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1959, pp. 195-196.
[2] Elio Vittorini, Diario in pubblico, Bompiani, Milano 1970, p. 116.
[3] Ibidem, pp. 166.
[4] Italo Calvino, Prefazione, in Cesare Pavese, La letteratura Americana e altri saggi, op.cit., pp. xiii-xiv.
[5] Fernanda Pivano, in Vittorini traduttore e la cultura americana, Terzo Programma, n. 3, 1966, p. 20.
[6] Ibidem.

Fonte: Valerio Cappozzo

Michele Colitti30 Posts

Nato a Campobasso nel 1985, ha studiato Media e Giornalismo presso l'Università "Cesare Alfieri" di Firenze. Collabora con la rivista "Il Bene Comune" dal 2010. Giornalista pubblicista dal 2014.

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