Visibili e invisibili

 

di Francesco D’Episcopo

In memoria di Antonio Antenucci

Ho sempre amato la “clandestinità” di personaggi straordinari, che la vita mi ha offerto il privilegio di incontrare e che ho spesso preferito a quelli cosiddetti arrivati o famosi, che ho pure incrociato, intervistato, sui quali ho anche scritto. Perché? Ma proprio perché dei primi nessuno avrebbe forse parlato e scritto.

Un solo esempio: un mio caro collega, che non si era molto preoccupato di scalare i vertici più alti della nostra carriera accademica, a differenza dei molti altri, che non solo li avrebbero scalati ma raggiunti, con meriti senza dubbio minori; ebbene, durante un cordiale viaggio in pullman, egli mi tenne, senza volerlo, una vera e propria lectio magistralis sui debiti dei poeti crepuscolari nei confronti di Dante e della sua Commedia. Non era un letterato puro ma uno storico, anche se suo padre era stato un italianista di tutto rispetto. Ebbi, ancora una volta, conferma che buon sangue non mente.

Potrei dedicare un libro a molti di loro; un libro che mai nessuno scriverà, nel rispetto di una consegna che loro facevano a se stessi: leggevano, leggevano, al massimo prendevano appunti, ma non pubblicavano mai, dico mai, i risultati, a volte rivoluzionari, delle loro ricerche. Confesso che anche con loro sono riuscito a compiere qualche miracolo, ma avrei sperato di poter fare di più.

Questi pensieri mi hanno assalito, quando ho appreso la tragica notizia della morte di Antonio Antenucci, nella patria di mia madre e di Francesco Jovine, Guardialfiera, paese che si distende su una dolce collina del Molise e guarda una diga, la cui strada conduce sul versante adriatico. Era stato accurato e discreto segretario di quel Comune, con il quale avevo avuto dei rapporti per l’acquisto di alcune copie di un mio libro su Jovine. Ero e sono legato a Guardialfiera, uno di quei paesi del mio Sud che mi ha poi conferito, in una cerimonia memorabile, alla presenza di Leopoldo Elia, la cittadinanza onoraria.

Solo nel tempo ho scoperto che quell’attento burocrate era non solo un appassionato lettore, ma un puntiglioso chiosatore di storie e personaggi del suo paese. Esiste anche nella nostra scienza una sorta di burocrazia di fatti e di parole, che non deve considerarsi astratta, ma tutt’altro, concreta, persino spietata, quando è giusto che sia, insomma, una filologia, madre di ogni disciplina. E anche in questo Antenucci era un maestro affatto dilettante, ma professionista nello scovare eventuali errori e confusioni, sempre possibili in inediti lavori di ricerca.

Tutto ciò me lo ha reso sempre più simpatico e amico, anche se, quando ci incontravamo lungo i marciapiedi di Corso Umberto I, non avevamo molto tempo per soffermarci su temi e argomenti storici e letterari, che ci stavano a cuore. Di qui il mio accorato, ciclico invito a mettere per iscritto le sue acute osservazioni, per un confronto e un vaglio più calmo e meno frettoloso.

So che in parte questo mio invito è stato accolto, forse più per rispetto che per convinzione personale. L’umiltà, l’apparente inadeguatezza può provocare gravi danni in chi non è ufficialmente incardinato in un sistema. Ma non è assolutamente così e il personaggio che ci ha lasciati, prematuramente, ne è una prova evidente, come molti altri.

L’Italia è ricca della loro pazienza, della loro gratuita dedizione e passione, spesso del loro genio, parola impronunciabile secondo il sempre umile parere dei diretti interessati, dai quali, confesso alla fine, ho talvolta appreso più che da presunti intellettuali e studiosi di rango, osannati da un pubblico sempre più spettacolare e superficiale.

A loro vadano, dunque, il mio sentito ringraziamento e il ciclico, ossessivo invito a non disperdere ma a fissare per sempre le loro, a volte, illuminanti scoperte. La sfida è necessaria tra reali visibili e solitari invisibili e apparenti e corali visibilissimi.

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