I cimiteri si ingrandiscono, i paesi rimpiccioliscono

di Francesco Manfredi-Selvaggi

L’allargamento dei camposanti non è in relazione con l’andamento demografico dei comuni. Spesso le richieste di nuovi posti di sepoltura sono fatte da persone non residenti in quel centro, ma che hanno un’origine famigliare lì.

Che nei nostri cimiteri vengono a essere seppellite anche persone che sono vissute altrove è un fenomeno di una certa rilevanza imponendo il loro allargamento, alle volte consistente. Le preoccupazioni sono, innanzitutto, di ordine paesaggistico le quali si accentuano se la maggiore capienza comporta l’elevazione dei colombari o, addirittura, la realizzazione di spazi sepolcrali su due livelli come accade a Riccia o a Isernia; gli alti muri di cinta che si rendono necessari costituiscono uno schermo alle visioni panoramiche.

Non è solo, comunque, una questione di disturbo visivo perché vi è anche quella della compromissione del territorio quando l’ampliamento avviene in senso, per così dire, orizzontale; ciò determina, con un termine attuale, consumo di suolo. Proviamo ora a cercare una spiegazione a tale tendenza, quella di scegliere quale luogo di sepoltura il paese in cui la propria famiglia ha le radici, escludendo, pertanto, dalla trattazione gli altri possibili casi.

Bisogna partire da lontano, almeno dagli anni 60 del secolo scorso, quando si ebbe la migrazione dal Sud di una quota considerevole di popolazione verso le aree industriali del Settentrione e le principali metropoli, in cerca di lavoro. Non furono partenze indolori perché si fu costretti a recidere i legami con le comunità di origine. Non si tratta esclusivamente della perdita di affetti, ma anche della stessa identità degli individui i quali si trovano calati in realtà completamente diverse da quella lasciata. Approfondiamo di seguito il tema delle valenze identitarie legate alla terra da cui si proviene, direttamente o tramite i propri genitori trovandoci di fronte oggi alla “seconda generazione” di nuclei famigliari emigrati.

Si è appena usata, non a caso, la parola terra perché noi siamo sempre stati una società rurale, anzi ruralissima secondo Mussolini. Ci siamo identificati costantemente con il mondo agrario e questo rapporto strettissimo con la campagna ha influenzato la cultura, le tradizioni e financo il modo di sentire delle entità sociali molisane. Essere in contatto che definiamo ravvicinato (del “terzo tipo”) con le problematiche dell’agricoltura locale significa essere in congiunzione (forse pure astrale) con il territorio; più di ogni altra attività produttiva è quella agricola la maggiormente connessa con il contesto territoriale.

Il sistema economico rurale è per antonomasia chiuso essendo basato sull’autoconsumo e ciò fa sì che esso venga a coincidere con un definito ambito territoriale, incentrato su un piccolo agglomerato urbano il quale oltre ad essere la sede delle residenze è il polo dei pochi servizi necessari ai coltivatori. L’identità è connessa al luogo e contemporaneamente alla famiglia di appartenenza. Infatti l’unità produttiva base è costituita dalla famigli patriarcale la quale, di conseguenza, non è semplicemente la fonte degli affetti, in quanto si può definire il minimo comune multiplo della struttura economica. Inoltre, tale organizzazione domestica rappresenta, di fronte all’assenza di presidi statali capaci di assicurare il sostegno agli anziani, la cura dei bambini e così via, l’unico riferimento nel campo di quella che si denomina sicurezza sociale.

La famiglia patriarcale non costituisce, ad ogni modo, una monade, bensì interagisce strettamente con le altre all’interno dell’aggregato insediativo non fosse che (ci sono pure i rapporti matrimoniali e i legami parentali vari) ne è obbligata vivendo fianco a fianco nelle viuzze o negli slarghi dei centri storici, per ragioni di buon vicinato e anche quando la casa è situata nell’agro sono inevitabili le relazioni con le abitazioni più prossime in una logica di mutuo soccorso. L’identità è la famiglia e insieme la comunità. La società di un tempo si è andata perdendo con il trasferimento nelle città dove il condominio se, da un lato, garantisce riservatezza, da quello opposto produce isolamento.

Insieme ai vecchi legami è, ormai, del tutto scomparsa, per il trasloco di massa dei lavoratori dal settore primario a quelli secondario e terziario, la relazione con il suolo e neanche il possedere la seconda casa in paese, poiché utilizzata solo in periodo estivo, si associa con la messa a coltura dei campi. Gli orizzonti, anche per chi è rimasto, sono cambiati con lo spazio esistenziale che si è dilatato per via del forte sviluppo delle comunicazioni. E ci si ferma qui, ogni cosa nell’era contemporanea si è modificata senza, però, che si siano raggiunti nuovi equilibri a proposito della dimensione identitaria (niente che sostituisca la catena terra-famiglia-comunità).

L’iscrizione ad un circolo o una associazione, o la frequentazione di un bar nei quartieri delle periferie urbane non sono occasioni di identificazione comunitaria. Pensando alla morte, quella terrena, viene spontaneo credere che il punto di approdo desiderato per la propria esistenza da parte di tanti sia la località se non di nascita da dove nel dopoguerra si è mossa la famiglia, quasi una faccenda di tradizioni famigliari se non di valori identitari. I componenti della famiglia, il modello famigliare odierno è di tipo nucleare, che non sono destinati a stare nello stesso posto a lungo per la mobilità lavorativa e, di conseguenza, la dimora non è stabile, nell’andare a far visita alla tomba del proprio caro nel camposanto del comune di origine avrebbero occasione di rivedere parenti ed amici che abitano ancora lì, di mostrare ai figli i loro antenati (la famiglia, uno dei fattori identitari) il che non è male.

A meno che non si consideri il cimitero come un’”opera igienica”, voluta così dai Francesi con il decreto napoleonico del 1809, alla stregua di altre attrezzature per l’igiene pubblica, prendi il mattatoio con il quale condivide il divieto a ubicarsi in vicinanza dell’abitato; la stessa presenza dell’alberatura dentro l’area cimiteriale risponderebbe, similmente agli alberi del “verde” cittadino, all’esigenza di migliorare la qualità dell’aria e solo secondariamente al bisogno di decorazione. È una visione funzionalistica, figlia dell’Illuminismo che informa l’Età della Ragione.

Francesco Manfredi Selvaggi641 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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