Borgo in tinta unita
di Francesco Manfredi-Selvaggi
I villaggi tradizionali pur disponendo di una limitata tavolozza di colori presentano una varietà di tinte. Ciò, tale differenziazione di colorazione tra gli edifici, la si percepisce entrandoci dentro, mentre da lontano appaiono abbastanza uniformi coloristicamente perché si tratta di tinteggiature che si combinano insieme. Per garantire tale effetto anche nella zona di espansione urbana occorrerebbero i Piani del Colore (ph F. Morgillo)
Bisogna subito dire che nei villaggi tradizionali le costruzioni che li compongono sono intimamente legate al contesto ambientale. Per l’edificazione si fa uso dei materiali presenti in loco, pietra se il sito è roccioso, mattoni se l’area è ricca di argilla, e lo stesso vale per la loro colorazione adoperando le terre pigmentose da stendersi sull’intonaco disponibili. Abbiamo una limitata gamma di tinte da potersi utilizzare, tutte in tonalità tenui, il che rende sostanzialmente unitario il cromatismo del borgo.
Se ne distaccano le abitazioni dei ceti più abbienti le quali si ispirano alla tradizione architettonica colta impiegando in facciata colori differenti prodotti dai colorifici per rimarcare volta per volta o tutti insieme i cantonali, la fascia basamentale, le cornici delle aperture e così via seguendo gli stilemi coevi più in voga, una sorta di moda. Per quanto riguarda le case del popolo le quali sono la componente maggioritaria del borgo per quanto riguarda la tinteggiatura si può parlare di “uniformità nella diversità”.
Infatti l’uniformità di fondo non significa che a scala locale, in un segmento viario la fabbricazione laterale sia in tinta unita. Il policromismo è favorito dal frazionamento dell’edificato in cellule abitative minime le quali possono avere ciascuna una propria distinta colorazione dissimile dalla vicina. Detto diversamente non vi sono strade con ai lati fronti tutti rosa pallido e altre fronteggiate da corpi di fabbrica costantemente azzurrini. In definitiva, globalmente in un insediamento dal punto di vista coloristico vi è una certa consonanza, mentre localmente vi è una discreta, compatibilmente con i pochi pigmenti reperibili, varietà nella pitturazione delle sue casette.
Da lontano prevale quale effetto ottico l’unità, poiché le tinte si mischiano fra loro, sfumano l’una nell’altra, arrivano a confondersi, da vicino emerge la diversità vedendo i fabbricati uno a uno. Di recente sono state effettuate alcune ristrutturazioni di unità residenziali datate utilizzando per le pareti esterne colori addirittura sgargianti, a Lucito, a S. Elena, a Castelbottaccio, che rompono o interrompono, volutamente, l’equilibrio cromatico di quei centri storici. Si sta affrontando il tema del colore da applicare al costruito dando per scontato che i manufatti del passato ne fossero dotati, sempre; invece non è così perché una moltitudine di edifici negli agglomerati antichi e, soprattutto, in campagna sono in pietra faccia vista.
Seppure non lo fossero all’origine una certa quantità lo è diventato per via del disfacimento dell’intonaco il quale mette allo scoperto il paramento lapideo sottostante. Un inciso, il lavoro eseguito a seguito dei danni inferti dalla scossa sismica, per sopravvenuta modifica delle disposizioni tecniche venuta meno la prescrizione del placcaggio del muro con rete elettrosaldata e betoncino su entrambi i suoi risvolti ha portato a prediligere la messa a nudo della muratura in pietra e ciò ha portato all’appiattimento dell’immagine del nucleo urbano; non sono stati risparmiati neanche i palazzi signorili i quali sicuramente erano intonacati facendo scomparire le modanature che arricchivano i prospetti e un caso limite è Ripabottoni.
Nelle strutture oggetto di restauro le pietre vengono ripulite, ma in questo modo viene a perdersi la patina del tempo; l’estradosso lapideo del setto a causa dell’esposizione prolungata alle intemperie si scurisce e ciò conferisce un particolare fascino a tali dimore e non si sta parlando del nerofumo delle cucine con camino, troppo affascinanti. La pietra non si può, ad ogni modo, definirla incolore, si badi bene, poiché la cromia dell’arenaria, prevalente nei comuni, prendi S. Massimo, collocati sopra questa formazione rocciosa, è ben diversa da quella del calcare, vedi Castelpizzuto che è sul Matese, una montagna carbonatica, e da quella del travertino la cui porosità risalta nelle arcate sopravvissute dell’abbazia di S. Vincenzo al Volturno e da quella, rossastro scura, del flysch numidico che sta tra Lupara e Pietracatella.
Solo per erigere monumenti la pietra viene importata da altrove come il granito proveniente dalla Sardegna dei rocchi di colonne dei resti della chiesa di S. Pietro a Cantoni di Altilia, altrimenti è a “Km. 0”. Nel territorio rurale si rivela ancora più stretta la compenetrazione tra ambiente naturale e manufatto antropico con le fabbriche uso residenza o stalla, compresi i muri di cinta, le quali addirittura si mimetizzano nel pendio, la pietra con cui sono fatti fa tutt’uno con gli affioramenti rocciosi dell’intorno, da cui, del resto, è stata prelevata.
Nell’area della Montagnola financo la copertura è in pietra, le “licie”, le quali impermeabili come sono, capaci di resistere alla spinta del vento che, per il loro peso, non riesce a spostarle, non bisognevoli del tavolato sottostante, sono idonee a coprire una casa. Macchiagodena vista dall’alto, dal castello, è una distesa di lastre grigie che la fa assai pittoresca. Altrettanto suggestivi sono i tetti in “pinci” i quali essendo di fattura artigianale sono di colorazione cangiante in dipendenza della temperatura di cottura e dell’impasto argilloso, la materia prima che varia da luogo a luogo, una cosa completamente differente dalle tegole cementizie di produzione industriale.
A Roccamandolfi che è stata risparmiata dal terremoto dell’84 si conservano i coppi tradizionali che qui hanno un colore rosato. Passiamo ora al rapporto dal punto di vista coloristico tra nucleo abitato e paesaggio: i villaggi in pietra si fondono con l’insieme paesaggistico in cui predominano le emergenze rocciose, mentre si registra un contrasto cromatico se il quadro percettivo è dominato dai pascoli e dai boschi. Sulla costa a fare da contrappunto nelle vedute all’insediamento umano è il fondale rappresentato dall’azzurra superficie marina.
Si è nominato poco fa il verde il quale punteggia pure qua e là il centro abitato sotto forma di vegetazione in vaso che orna balconi e davanzali, oggi sempre meno per via dell’abbandono di tante case a causa dell’emigrazione. Finora non si è fatto cenno discutendo della tavolozza cromatica dei nostri borghi al bianco forse perché viene giudicato acromatico, in qualche modo l’assenza di colore.
Così come gli esquimesi distinguono molteplici varietà di neve cui corrispondono bianchi diversi così noi dobbiamo imparare a riconoscere le pluralità di bianco della “scialbatura”, uno strato di latte di calce steso sulle mura a protezione delle abitazioni che va rinnovato di frequente. Il colore dipende dalla pietra che è servita per ottenere, tramite cottura, un ingrediente esclusivo (nell’intonaco c’è la sabbia in più). Il bianco delle pareti permette al rosso delle tegole di aver maggior risalto. A colorare l’edificio contribuiscono pure gli infissi verniciati di verde o lasciati color legno e canaloni, grondaie e messicani, un tocco di colore metallico, siano essi in rame o in stagno.
Francesco Manfredi Selvaggi640 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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