«Alfredo Cospito è un sovversivo, non un boss. Il 41 bis per lui è una persecuzione»

di Diletta Bellotti da l’Espresso

Applicato per scopi diversi da quello di tagliare i ponti con la struttura mafiosa di appartenenza, il regime carcerario restrittivo diventa “illegittimo”. Una strategia contro chi pratica il conflitto sociale

Allo scoccare del novantesimo giorno di sciopero della fame un detenuto nel carcere di Sassari, l’anarchico Alfredo Cospito, aveva perso 38 chili. A maggio 2022, al suo decimo anno di carcere, Cospito è stato rinchiuso in una cella di un metro e 52 centimetri di larghezza per due metri e 52 centimetri di lunghezza, cioè uno spazio occupato quasi tutto dal letto.

Cospito, sepolto, come altri 749 detenuti in Italia (2021), in un sarcofago di cemento armato, è sotto regime di 41 bis. Nel 2022, il reato di Cospito è passato da strage comune a strage politica, reato non applicato neanche per Capaci o Piazza Fontana. Il 41 bis, nella sua fondazione giuridica, ha una ratio non punitiva, ma di prevenzione: è infatti per esempio applicato indistintamente a persone condannate o in attesa di giudizio.

Lo scopo dell’isolamento, o quasi isolamento, è quella di impedire che il detenuto possa comunicare con altri soggetti, sia all’interno che all’esterno del carcere, per proseguire le attività criminose. Da misura emergenziale, nel 2002, questo regime detentivo è diventato cardine del sistema a tempo indeterminato ed è stato applicato, da lì in poi, anche ai reati di terrorismo. Il 41 bis nella sua formulazione giuridica non si identifica necessariamente con il “carcere duro”; lo scopo della norma è quello di recidere i rapporti con l’organizzazione criminale di riferimento.

Il 41 bis dunque, quando applicato fuori dal suo scopo fondante, ovvero quello di tagliare i ponti con la struttura mafiosa, è un carcere che si potrebbe definire “illegittimo”, perché persegue concretamente e produce conseguenze diverse dalla norma, dalla sua finalità, dalla sua ratio. Ha un intento afflittivo e persecutorio, nega l’identità, depriva i sensi, non lascia spazio alla rieducazione a cui il carcere dovrebbe mirare.

Così vi è l’assenza della natura rieducativa e umana dell’istituzione carceraria, e, ancor più che agli anarchici, il carcere duro deve far paura a chi crede e protegge uno Stato di diritto. Il carcere duro e il 41 bis sono l’epitome di un’istituzione che condanna, in ogni caso, alla marginalità sociale e all’illegalità, di fatto la istituzionalizza. È una struttura intrinsecamente criminogena e patogena, ovvero reitera, anzi rafforza, le distorsioni di una società che di fatto non sa emancipare l’individuo dalle proprie condizioni materiali. Il carcere deve redimere, deve socializzare, deve assurdamente correggere devianze che sono le devianze di Stato: la precarietà, la marginalizzazione.

Chiaramente l’ambiente sovversivo, quello che spazia dalle azioni dimostrative e simboliche, alla non-violenza, all’azione diretta e quant’altro, teme il carcere duro, perché la sua applicazione richiede necessariamente, da parte di chi esercita il diritto, l’identificazione di una categoria politica criminosa, non di un fatto. È la torsione del diritto, l’apice d’offensiva dello Stato: sugli anarchici si sperimenta la tortura e la repressione, parte di una strategia che viene allargata poi a chiunque pratichi il conflitto sociale, anche in forme lievi. Non è un caso infatti, che anche strumenti come la sorveglianza speciale, derivino dal codice Rocco. Ma cosa c’entrano i boss mafiosi con chi pratica il conflitto sociale?

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