Un palazzo fronte-retro nel centro di S. Massimo

di Francesco Manfredi-Selvaggi

 

È un’architettura che presenta una differenziazione stilistica tra i due fronti, quello anteriore e quello posteriore, l’uno ha caratteri classicistici l’altro è influenzato dal neogotico per via delle torri angolari; la regolarità della facciata si addice ai prospetti che volgono verso uno spazio urbano, le irregolarità, le stravaganze sono ammesse nei giardini ed è un giardino lo spazio posto alle spalle dell’edificio (Ph. F. Morgillo-Veduta di scorcio del palazzo e il portale)

 

In genere un palazzo lo si comincia ad analizzare dalla facciata e invece in questo caso si inizia la lettura con l’osservazione del retro. Ciò non per puro spirito di contraddizione ma perché la sua immagine più riconoscibile è quella posteriore. Il fronte principale ha caratteri ricorrenti in molti altri fabbricati signorili ottocenteschi, mentre le torri, nella faccia manco a dirlo opposta, perché totalmente diversa, lo rendono pressoché unico almeno nel panorama delle residenze delle famiglie dei “galantuomini”, la classe-sociale emergente del XIX secolo cui appartenevano anche i Gioia un esponente dei quali, cui si deve la realizzazione del palazzo, era canonico della Diocesi di Boiano in quel tempo prestigiosa carica.

Le torri rimandano alle opere fortificate, un bisogno quello della fortificazione che ormai non era più attuale, era ormai finita l’epoca delle “congiure dei baroni”. Le torri, dunque, hanno un significato culturale, nessuno scopo utilitaristico se non quello, talvolta, di accogliere il wc che aveva fatto la sua comparsa con l’arrivo nelle case dell’acqua corrente, novità risalente a quel periodo. Nel contiguo palazzo Tortorelli è ancora visibile lo “stanzino di comodo” ricavato nella torre. Non ci sarebbe stato altro spazio disponibile all’interno dell’alloggio per simile necessità sopraggiunta. Tolto ciò rimane il valore rappresentativo, da un lato vi è la volontà di identificazione dell’abitazione con una dimora nobiliare, similcastello, un’aspirazione aristocratica plausibile di questi homines novi, dall’altro c’è la voglia di seguire la moda apparsa di recente dello stile gotico, o meglio neogotico, la passione per un medioevo sognato più che realmente esistito.

Questa seconda teoria risulta credibile pensando al livello culturale del canonico Gioia, il promotore della costruzione del palazzo, il quale fu precettore in casa di una nobile famiglia di Napoli dove si trasferì portando con sé la nipote Rosa Maselli, che colà andò in sposa ad Antonio Manfredi funzionario dell’amministrazione pubblica, per dire delle frequentazioni elevate; al nucleo famigliare del dotto sacerdote apparteneva, poi, Raffaele Gioia il maggior pittore molisano di fine Settecento da cui l’amore per l’arte. Che le torri del palazzo Gioia non fossero parte di un sistema difensivo urbano, siamo pur sempre al limitare dell’abitato, magari inglobate successivamente nella costruzione in questione, quindi non realizzate ex-novo, è, parimenti all’ipotesi ventilata all’inizio di presidi militari a protezione del palazzo, da scartare.

Non si intravede infatti da questo lato del borgo la presenza di un qualche accenno ad una cortina muraria continua turrita. Non si può portare a sostegno della sua esistenza/preesistenza la sussistenza, giocando un po’ con le parole lo si ammette, la torretta del vicino palazzo Tortorelli troppo diversa dalle due a corredo del palazzo Gioia sia perché più bassa sia perché svettante al di sopra dell’edificio cui è collegata, le altre sono pressoché a pari, solo un pochino emergenti, del cornicione. C’è un ulteriore dato che ci fa propendere ad interpretare le torri come manufatti ornamentali ed è la presenza del giardino, esse, il muro cui sono aderenti, sarebbe dovuto essere al confine dell’area urbanizzata ed invece non è così se si includono in quest’ultima pure le pertinenze dell’edificato.

A proposito del giardino appena nominato è bene che ci correggiamo subito perché se il terreno il quale è, comunque, in piano come si conviene ad un giardino fosse tale allora, ragionevolmente, si sarebbero dovute aprire ampie finestrature nella residenza per goderne della vista come succede nel prossimo palazzo Selvaggi con le sue logge che affacciano sullo spazio verde ad esso connesso, allineato con quello dei palazzi Gioia e Tortorelli, una fascia di giardini. Il duplice loggiato del palazzo Selvaggi conferisce un carattere di apertura a questo edificio contrastando il senso di chiusura che trasmette la parete compatta del palazzo Gioia.

Se c’è qualcosa che invita ad associare la faccia che volge verso la campagna del palazzo Gioia ad una murazione difensiva, oltre che le torri, è la sua altezza, superiore a quella del prospetto dove è ubicato l’ingresso, perché da questo lato, la costruzione è in pendio, emerge alla vista il piano seminterrato e cioè la sua possanza. Ritornando un attimo alla faccenda del giardino, per completare il discorso, va considerato, ad ogni modo, che non è necessario che si tratti di un “luogo di delizie”, potrebbe essere semplicemente un orto a servizio dell’economia domestica come appare nel caso specifico. Partendo da questo fazzoletto di terra facciamo ora letteralmente un capovolgimento di fronte, passiamo da quello posteriore al fronte anteriore mettendo in rilievo il fatto che il giardinetto si sarebbe potuto trovare invece che dietro davanti al palazzo (ciò vale anche per i palazzi Selvaggi e Tortorelli e per la casa Silvestri) con un arretramento del medesimo fronte, a parità di estensione del lotto impegnato.

Ha prevalso però la regola del fronte a fronte strada, dunque la sottomissione del costruito alle superiori esigenze urbanistiche le quali impongono, di norma, che i fabbricati siano al contorno della rete viaria cittadina, ovvero non distanziati da essa. Il palazzo Gioia, trattandosi il suolo su cui poggia in declivio, lieve, è in piano sul davanti e rialzato sul didietro con il piano, adesso nell’accezione di livello del fabbricato, parzialmente interrato coperto da una serie continua di volte a crociera a formare un ambiente unico punteggiato dalle colonne, quadrate non tonde, che sostengono le predette volte, senza perciò muri divisori per delimitare locali separati, la sua visione è davvero speciale.

Francesco Manfredi Selvaggi669 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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