La montagna e la pianura, trasformazioni a doppia velocità

Seppure cambi più lentamente anche il paesaggio montano si modifica anche se molto meno di quello delle piane.
Al di là della differente accelerazione nel cambiamento vi sono altre più sostanziali diversificazioni tra questi due
ambiti geografici

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Di primo acchito si potrebbe affermare che il paesaggio della montagna sia immobile, mentre quello della pianura sia mobile. Il primo fermo, il secondo propenso alla mutevolezza. Ambedue queste zone, è ciò che hanno in comune, presentano condizioni climatiche estreme, la fascia montana per la sua temperatura in alcune stagioni, specie d’inverno, davvero rigida, quella pianeggiante per l’eccessiva calura estiva. Sui rilievi montuosi, poi, le precipitazioni sono molto consistenti, invece nel piano sono scarse, prendi il Tavoliere che in estate diventa arido costringendo l’arsura le pecore a “transumare”.

Sono due situazioni ambientali “al limite” che rendono i luoghi inospitali e la scarsità di popolamento è un altro fatto che li unifica; le piane sono sfruttabili solo per il pascolo, i monti anche per il bosco. Tutto ciò storicamente, situazione diversa in epoca contemporanea in cui si ha una divaricazione a proposito della stabilità paesaggistica tra le alture e le pianure le quali ultime hanno avuto una trasformazione profonda a causa dell’azione di bonifica; le une sono rimaste pressoché com’erano da tempo immemorabile, cioè le emergenze montuose, le altre, cioè le distese pianeggianti, hanno subito una mutazione nell’arco di pochi decenni e il loro assetto non è più senza tempo. Non è che, comunque, nei territori in altitudine non sia cambiato proprio nulla. Rimaniamo sulle aree in quota per registrare un autentico andirivieni di situazioni.

In una prima fase, risalente alla fine del XVIII secolo di cui fu testimone diretto G. M. Galanti, la fame di terra da coltivare portò al disboscamento pure in ambiti territoriali altimetricamente elevati introducendo colture anche ad altezze che le coltivazioni non avevano mai raggiunto. In una seconda fase iniziata nel secondo dopoguerra e ancora in corso il bosco si va riprendendo il suo spazio e non perché vi sia una ripresa dell’industria boschiva, anzi la domanda di legname è molto diminuita rispetto al passato quando i nostri progenitori erano gran consumatori di legna specialmente da ardere. L’espansione della massa boscosa non avviene a scapito dei terreni agricoli, l’agricoltura di montagna già da molto non era più praticata, bensì delle superfici pascolive. L’alpeggio appartiene ad una modalità di allevamento che sta diventando abbastanza desueta. In definitiva con un sincronismo perfetto all’avanzamento dei boschi viene a corrispondere un arretramento dei pascoli. Si apre in riferimento a ciò un inciso: non è che la
diminuzione degli areali erbosi destinati al pabulamento degli animali durante la monticazione significa che l’economia zootecnica stia scomparendo, è solo che ora siamo di fronte al fenomeno di una “zootecnia senza terra”, con le bestie ricoverate in stalla e alimentate con il foraggio. Prima l’allevamento era un’attività tipica dei montanari, l’area di elezione erano i comprensori montagnosi, ormai esso si è spostato a valle. Nelle età antiche la pastorizia rappresentava qui da noi un ramo significativo del settore Primario perché l’allevamento allo stato brado era un settore con ridotto impiego di manodopera la quale ultima costituiva una risorsa limitata data l’esiguità di popolazione in epoca remota, non tanto per una specifica vocazione della montagna, è classificato territorio montano larga parte del Molise.

L’assenza di forza-lavoro disponibile gioca un ruolo anche per l’agricoltura. Essa si ritrae dalle fasce altitudinali
superiori in quanto diventata trattore-dipendente, non poteva essere altrimenti per la diminuzione degli addetti, non è favorita, di certo, dall’orografia mossa, movimentata dei terreni appenninici, assai meglio quella piatta del comprensorio costiero. Ciò per dimostrare che in quota solo apparentemente tutto è statico, neanche quelle che ci sembrano praterie primarie o foreste primarie sono tali (per primario si intende un elemento naturale che risale alla notte dei tempi). Comunque, tolte, per una causa o per l’altra, la pastorizia, l’agricoltura e il taglio boschivo le zone montane si presentano congenitamente meno versatili di quelle pianeggianti senza, peraltro, dimenticare che queste attività gioco forza sono svolte sui monti in forme elementari. Il piano si presta, al contrario, a molteplici usi, oltre che agricoli, insediativi e industriali, il che ne fa una realtà complessa, per niente semplice come la montagna. Ovviamente tra questi due opposti del territorio vi è la collina la quale, a tratti, si associa alla montagna costituendo in tali
tratti le pendici, venendo a formare un insieme dove l’utilizzazione del suolo varia nel salire verso l’alto configurando un paesaggio verticalmente articolato; lo stesso andamento verticale del paesaggio lo si ritrova nelle colline isolate, a sé stanti, scendendo verso il basso il suolo comincia a spianare fondendosi il piede del colle con il mondo delle piane. In pianura il paesaggio è orizzontale movimentato esclusivamente, se l’agro è dedicato per intero alle coltivazioni, dalla scansione dei campi a cereali i quali per la rotazione colturale hanno nel periodo vegetativo colorazione differenziate, con gli appezzamenti destinati a frutteto, colture orticole e vigneto di colore uniforme; questo è un bene poiché per la sua piattezza l’immagine della campagna sarebbe troppo monotona a questa “bassitudine”, un neologismo in
contrapposizione ad altitudine.

Foto di copertina di  F. Morgillo-Quadro campestre molisano

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