La destra e la democrazia

di Gianni Cuperlo (dal suo profilo facebook)

Prima di tutto grazie per i commenti all’intervento di ieri sulla separazione delle carriere.

La maggioranza ha imposto una seduta fiume e il voto finale si terrà domani alle 12.00: poi dopo la seconda lettura al Senato l’appuntamento sarà a primavera col referendum e in tante e tanti ci saremo.

Stamane a Cattolica per l’appuntamento annuale dello Spi-Cgil di Emilia-Romagna e Lombardia, discuteremo di rappresentanza e democrazia assieme a Ezio Mauro.

Se vi va vorrei condividere con voi qualche pensiero sul tema del linguaggio d’odio salito di nuovo e con qualche prepotenza agli onori della cronaca.

Era il 2004 e lo scrittore statunitense Philip Roth pubblicava “Il complotto contro l’America”.

Era una rilettura della storia in chiave fantapolitica, con il trasvolatore atlantico Charles Lindbergh che usciva vincitore dalle elezioni presidenziali del 1940.

In vita Lindbergh era stato per davvero un simpatizzante della Germania nazista e nel romanzo Roth descrive cosa sarebbe potuto accadere con un uomo apertamente antisemita alla testa degli Stati Uniti e pronto a chiudere un’alleanza con Hitler e il Giappone.

Per gli amanti del genere va detto che il racconto alla fine volgeva al bene col ritorno al governo di Franklin Delano Roosevelt e l’America, come effettivamente avvenne, schierata dalla parte giusta della storia dopo il 1941 e l’attacco di Pearl Harbor.

Bene, adesso con un azzardo presuntuoso proviamo a trasferire quella fantasia scabrosa in casa nostra e immaginiamo una scena del genere.

Il calendario riporta la data del 16 marzo 1978, verso le nove del mattino le agenzie di stampa ribattono frenetiche la notizia di un commando terrorista che in Via Fani, quasi al centro di Roma, ha appena sequestrato il presidente del partito di maggioranza relativa massacrando i cinque uomini della scorta.

Proprio quella mattina il presidente del Consiglio Giulio Andreotti doveva ottenere dal Parlamento la fiducia sul suo quarto governo.

Immaginiamolo di lì a breve, una manciata di ore, alzarsi incurvato nell’aula di Montecitorio e denunciare le evidenti e vergognose responsabilità delle forze della sinistra rappresentate dentro l’emiciclo nell’avere favorito sino a colludere con quel crimine efferato che colpiva, come allora si usava dire, il “cuore dello Stato”.

Ipotizziamo il seguito.

Piazze contrapposte in un clima di violenza potenzialmente inarrestabile, le forze armate mobilitate a presidio di centinaia di obiettivi sensibili o persino coinvolte nell’opera di fermo e arresto di esponenti delle opposizioni politiche e sociali.

Si può ragionevolmente credere che la democrazia italiana, per molte ragioni fragile di suo, non avrebbe retto a una parabola tanto assurda quanto lontana dalla realtà dei fatti.

Allora perché scomodare una fantasia così irreale e drammatica?

Perché le frasi pronunciate giorni fa dalla presidente Giorgia Meloni dinanzi a una platea che voglio sperare colpita e stupita dalle sue parole debbono apparire per ciò che sono, l’espressione gravissima di una profonda assenza di responsabilità storica, politica, istituzionale.

Che la guida del governo per motivi a me ignoti, ma che posso intuire connessi a una condizione di difficoltà, o peggio a interessi di piccolo cabotaggio in vista del prossimo voto nelle regioni, scelga di utilizzare la tragedia di un omicidio politico per scatenare contro i suoi avversari interni una canea fondata sul nulla se non la denuncia assurda di un presunto favore verso le pulsioni violente e assassine di menti alterate è un balzo nel vuoto, oltreché la conferma sciagurata del degrado che si è impadronito di una parte, non la più marginale o ininfluente, della classe dirigente di questo paese.

La domanda è quando e come questa regressione del sentimento civile, del rispetto dell’avversario politico come atto di fiducia nelle istituzioni, ha prevalso sulla tradizione di identità e culture che la nostra Costituzione avevano pensato e scritto.

Negli stessi momenti che hanno visto il capo del governo sbugiardare così apertamente la funzione che ricopre, un suo ministro evocava il clima brigatista ignaro, o colpevolmente bugiardo, sulla lotta costata le vite di molti, anche dentro la sinistra, per sconfiggere quel nemico.

E ancora, nelle stesse ore, il vicepresidente del consiglio leghista denunciava la condanna dell’ex presidente brasiliano, Bolsonaro, come una “eliminazione politica” motivata dal suo vantaggio nei sondaggi trascurando la motivazione di quella pena a 27 anni di carcere per avere pianificato un colpo di Stato in combutta con alcuni generali riconosciuti al pari suo colpevoli di un tentativo di golpe che avrebbe riconsegnato il Brasile a una dittatura militare, come fu dalla metà degli anni ‘60 e per i vent’anni successivi.

In una riflessione molto acuta pubblicata giorni fa su La Stampa, il giornalista britannico Bill Emmott ragionando sull’omicidio di Charlie Kirk e il suo impatto su qualità e tenuta della democrazia americana, citava la risposta contenuta in Fiesta, il capolavoro di Hemingway, data da un personaggio a cui veniva chiesto come avesse fatto a precipitare in bancarotta, “In due modi. Poco alla volta e all’improvviso”.

Pensiamoci in tempo, prima che si faccia tardi anche per noi.

Perché al punto in cui siamo la questione non riguarda più lo stile del linguaggio che è un po’ come il coraggio di Don Abbondio, puoi possederlo o meno.

No, c’è qualcosa di più e di diverso che attraversa il clima nel quale siamo immersi ed è la possibilità che dalla totale e consapevole violenza della lingua possa derivare un indebolimento del nostro tessuto democratico e civile.

Se accadrà, non sarà con una nuova marcia su Roma, ma in un vuoto di anticorpi fatti anche di un sentimento di indignazione, col risultato che quella tradizione democratica affievolirà la sua luce “un po’ alla volta e all’improvviso”.

Impedirlo non è un compito esclusivamente politico.

È un dovere morale.

Buona giornata e un abbraccio

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