I martiri, i militi ignoti della cristianità, e i santuari

Corpi interi oppure frammenti, non conta l’entità di resti del santo per suscitare la devozione dei fedeli. L’arrivo delle reliquie trasportate dalle catacombe romane in età moderna ha introdotto nuovi culti nelle comunità che le hanno ricevute i quali hanno a volte ha preso il sopravvento, nel cuore della gente del posto, su quelli preesistenti
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Di santuari abbiamo diverse tipologie qui da noi, magari non nel senso proprio del termine, quello stabilito dal diritto canonico. I santuari sono secondo il modo di sentire comune, non, lo si ripete, coincidente in pieno con le disposizioni dell’ordinamento ecclesiastico, le chiese che sono oggetto di pellegrinaggio. Iniziamo, e ci soffermeremo a lungo su questo, da un tipo di santuario non usuale, il santuario urbano. Ve ne sono almeno due, legato l’uno alla devozione per S. Felice a Civitanova del Sannio e l’altro a S. Liberato a Roccamandolfi. La prima specificità, oltre a quella di essere situati in un contesto insediativo è che l’edificio di culto in cui i resti del santo sono conservati è intitolato ad un altro santo, in ambedue al santo patrono del paese, S. Silvestro a Civitanova e S. Giacomo a Roccamandolfi. È ben strano che i pellegrini entrino in fabbricati religiosi dedicati ad un certo santo e rivolgano le loro suppliche non al “titolare” del luogo di culto bensì ad un santo diverso. Il santo del quale porta il nome la struttura chiesastica dovrebbe essere, a rigor di logica, quello oggetto di venerazione in via principale. Tale equivoco si spiega con il fatto che le chiese parrocchiali sono risalenti, il loro impianto originario, al periodo paleocristiano e già da tempo avevano assunto il proprio nome, il nome proprio, antecedentemente perciò alla traslazione al loro interno delle reliquie; seppure spoglie di personaggi antichissimi martirizzati dai romani, il loro trasferimento in queste chiese è successivo alla titolazione delle stesse, è un fenomeno di età molto più tarda per cui i predetti Martiri non potettero pretendere il cambio della denominazione della fabbrica sacra, sono pur sempre ospiti.
Generalmente il nome della sede della parrocchia, di norma una, coincide con quello del santo protettore del paese, ma vi sono anche eccezioni, vedi S. Massimo ove la chiesa parrocchiale è dedicata a S. Salvatore, non a S. Massimo che è il patrono; è un caso particolare perché sarebbe stato troppo togliere l’intitolazione a Nostro Signore e neanche è ipotizzabile fare del Figlio di Dio il patrocinatore della comunità, sarebbe stato un capovolgimento dei ruoli essendo il patrono l’intercessore presso l’Entità Divina di cui Gesù è Egli stesso parte a favore degli abitanti del posto. A S. Massimo dove vi è una falange del dito del Vescovo di Nola non si cambiò il nome della chiesa parrocchiale e, però, si cambiò il nome del comune, da Castello ad, appunto, S. Massimo con l’arrivo delle reliquie. Eppure appare più semplice mutare il nome di un edificio di culto che di un intero borgo; il cambiamento della denominazione non è tanto, ad onor del vero, per rendere omaggio al santo quanto per la genericità del precedente nome, Castello, il quale è privo di nessun’altra specificazione a differenza di ciò che accade nelle tante realtà insediative la cui denominazione contiene la parola castello seguito da una specificazione di luogo, prendi Castel di Sangro e Castel del Monte, per citare i più celebri. Qui a Castello sarebbe stato facile aggiungere “del Matese”, ma così si sarebbe potuto confondere con Castello del Matese che sta nel versante campano. Tornando a noi, cioè alla questione del santuario urbano sarebbe stato troppo chiedere di cambiare il nome del centro da Roccamandolfi a S. Liberato, forse la denominazione della parrocchia si, e al proposito c’è un precedente costituito da un ulteriore santuario urbano, quello di S, Cristina a Sepino. La ex-cattedrale ora parrocchiale si intitola S. Cristina della quale si custodisce, in un prezioso reliquario in argento, un arto della santa e non l’intero corpo come succede a Roccamandolfi con S. Liberato; nonostante ciò S. Cristina è una santa di maggior rilievo, se è lecito fare una classifica fra santi, di S. Liberato del quale si riconosce il suo martirio, per il resto è sconosciuto, una specie di “milite ignoto” e ciò deve essere stata la giustificazione dell’attribuzione all’architettura religiosa sepinate del nome di S. Cristina. Edifici di culto dove vi è una sovrapposizione assoluta tra santo che lì si venera e intestazione della chiesa, per quanto stiamo per dire, della cappella la si ritrova specialmente in campagna, vedi S. Oto a Castelbottaccio; nell’agro il santo intestatario non ha comprimari e del resto in una chiesetta che è di dimensioni ridotte non c’è spazio per più altari, l’abside ha una superficie ristretta.
C’è una puntualizzazione da fare e che si doveva fare prima ma che per non interrompere il filo del discorso che si sta seguendo non si è fatta è che il raffronto è stato istituito con S. Massimo poiché Comune confinante a Roccamandolfi. Per completare questa ampia dissertazione sul rapporto tra la titolazione della chiesa e i santi che vi si adorano, riscontriamo che a Roccamandolfi la discrasia fra le due cose si ripete due volte, della prima si è detto, la seconda la si espone ora: nella chiesa di S. Sebastiano si va principalmente per implorare S. Donato di guarire dall’epilessia il proprio bambino. Sarebbe interessante capire, lo si dice a latere, come la compresenza di più santi all’interno di una chiesa, aventi, è ovvio, pari dignità, ma la venerazione verso i quali da parte dei fedeli non ha pari intensità possa influire sull’organizzazione dello spazio sacro; il caso limite è il sarcofago di S. Liberato collocato sull’altare maggiore della parrocchiale di Roccamandolfi, il quale è anche visivamente il fulcro dell’architettura.





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