È “social” pure l’housing

La legge regionale denominata Piano Casa favorisce la realizzazione dell’edilizia sociale, la quale però è un termine ancora vago, una sorta di scatola vuota, perché non vi è ancora una precisa definizione tipologica.

Di fronte ad una domanda eterogenea di soluzioni abitative fatta da persone con livello di reddito differenti, di formazione culturale diversa, di modi di vivere distinti, ma, soprattutto, di bisogni variegati non è possibile fornire un’unica risposta in termini di alloggio. Quelli che stanno emergendo nella società contemporanea sono i fabbisogni atipici per via dell’incremento dei cosiddetti single, degli individui che hanno un lavoro precario, di coloro ch provenienti dai Paesi poveri o interessati da conflitti sono in transito qui da noi, piuttosto che immigrati, di nuclei familiari composti da un solo genitore, da anziani assistiti da «badanti» e così via; per tali categorie sociali è difficile trovare sul mercato immobiliare case rispondenti ai propri particolari bisogni. L’espressione social housing compare verso la fine del secolo scorso e ha un rinnovato impulso circa 10 anni fa fino a comparire nella legge sul Piano Casa del Molise.

Qui vengono ricomprese quali titolati al possesso di abitazioni all’interno di interventi costruttivi destinati all’edilizia sociale le «giovani coppie» insieme alle persone in condizioni di disagio; allora si pone la questione del peso numerico degli appartamenti, si ritiene ordinari, da destinare alle prime rispetto a quelli con taglio particolare in cui i secondi trovino idonea collocazione. Tale percentuale è un tema delicato in quanto l’iniziativa costruttiva è demandata a imprese che operano per convenienza economica, sottolineando a questo proposito che nella situazione molisana nel campo edilizio non ve ne sono di appartenenti al mondo del no-profit, per le quali la disposizione legislativa regionale non susciterebbe interesse se letta quale volontà di conformare tutto il fabbricato in funzione delle tendenze all’abitare che stanno emergendo, perché nella nostra regione non ve ne è una richiesta significativa.

Oltre alle imprese sono ammesse a presentare istanza di edificabilità pure le cooperative le quali, nonostante siano organizzazioni “senza scopo di lucro”, avendo come soci solitamente i futuri residenti nell’immobile, non sembrano attratte dalla possibilità di deroga alle restrizioni urbanistiche offerta dalla normativa. Per stimolare l’adesione dei soggetti imprenditoriali e delle entità cooperative che si andranno a costituire alla volontà del legislatore di realizzazione di edilizia sociale, è necessario garantire una quota di alloggi prevalente alle famiglie di nuova formazione. Ciò lo si ritiene, per quanto evidenziato, nello spirito della legge e nello stesso tempo non troppo distante dall’essenza del concetto di social housing. Infatti, per quest’ultimo punto, occorre evidenziare che l’edilizia sociale non risponde a canoni tipologici definiti sia perché essa è a tutt’oggi in fase di sperimentazione, sia per la congerie di esigenze familiari alle quali essa è chiamata a dare risposta.

Mentre dal Novecento a partire dal Movimento Moderno si è puntato sulla standardizzazione delle costruzioni che passa per la definizione di un catalogo di tipologie mirante ad un processo produttivo di tipo quasi industriale al fine di risolvere il problema della casa dei ceti popolari, nell’epoca attuale si manifesta un distacco da tale omologazione tanto più che le istanze essendo in continua evoluzione non permettono di mettere a punto prototipi. In definitiva, va cercato qualcosa che si pone a metà strada, contemperando i bisogni dei nuclei familiari ordinari e delle forme di convivenza innovative. Probabilmente è a scala di struttura architettonica complessiva che si può trovare, data la problematica locale cui si è accennato, il senso di edilizia sociale per queste costruzioni.

Ad un livello profondo esso è quello della mescolanza di individui appartenenti a classi non omogenee per giungere all’integrazione delle componenti della società favorendo, nel contempo, l’inclusione dei soggetti più deboli e questo può essere ottenuto ponendo una forte attenzione nella progettazione agli spazi comunitari, ai servizi collettivi e all’area a verde condominiali (anche per i vantaggi ambientali che ne conseguono in termini di polmone di areazione dei vani affaccianti su di esse, è inutile sottolinearlo). L’obiettivo deve essere quello di spingere la creazione di una comunità nella quale si abbia un amalgama degli abitanti, una comunità possibilmente “sostenibile”, impegnata sui temi ecologici quali la riduzione dei rifiuti, il risparmio energetico, il riciclo delle acque.

La premessa per poter realizzare interventi di edilizia sociale fissata nell’art. 6 della L.R. 30/2009 è siano ormai sature le Zone destinate ad Edilizia Residenziale Pubblica dal PRG: ciò può trasformarsi in opportunità nella chiave interpretativa che si è fornita sopra di social housing quale strumento per favorire la convivenza sociale. Con la collocazione degli interventi di edilizia sociale nel corpo dell’aggregato urbano (una recente modifica della legge 30 ha escluso le Zone Agricole) si evita la segregazione, in verità dorata se si prende il CEP di Campobasso, in quartieri grossi, a volte mastodontici, e, per giunta, periferici di cittadini con minori disponibilità economiche. Bisogna perseguire pure, se si vuole l’omogeneizzazione dei fabbricati di social housing con il resto dell’edificato, la qualità estetica, abbandonando l’immagine austera delle case popolari solite.

Per quanto riguarda ora la qualità funzionale è necessario differenziare gli alloggi fornendo un ventaglio di opzioni sia per dimensioni sia per distribuzione interna dei locali e per servizi; un’opportunità alternativa è quella di provvedere alla individuazione di unità abitative minime che, sfruttando il principio della flessibilità, possono aggregarsi fra loro per configurare appartamenti di grandezza varia, rispondenti a esigenze non facilmente programmabili (l’unico elemento fermo rimanendo, ovviamente, le pareti attrezzate). Sono prevedibili alloggi da destinare agli ospiti sul modello del bed and breakfast collegati a determinate unirà residenziali, spazi per il coworking e il fablab da gestire insieme, stanza per gli assistenti domiciliari che vivono nello stabile, appartamenti con accesso autonomo sulla strada, lavanderia e stenditoio condominiale, sala per il gioco dei piccoli e per lo svago dei residenti nel tempo libero e così via.

Francesco Manfredi Selvaggi579 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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