La Lectura Dantis di Carmelo Bene, un evento unico

Una folla di più di centomila persone, giovani, anziani, mamme, lavoratori dei campi, era presente in strada, molti seduti sul selciato ad ascoltare, silenziosi come in un vuoto pneumatico. Molti conoscevano il Dante della scuola, altri lo ignoravano del tutto. Carmelo Bene ha sottratto a ogni convenzionalità i versi tanto noti di Paolo e Francesca, di Ugolino, di Ulisse, e altri ancora

di BEATRICE BARBALATO da ytali.com

Nell’anniversario dei settecento anni dalla morte di Dante, la Lectura Dantis di Carmelo Bene resta un evento unico. Bene ha sgombrato il campo da qualsiasi tentazione di ricondurre Dante al racconto storico, ai fatti pur tanto concreti che ha tramandato, lasciandoli scivolare sotto la forza della poesia intesa come musica, ritmo, tonalità, riportandola al suo essere pura forma.

In un passaggio che sembra scritto per Carmelo Bene, Roland Barthes scrive che la voce organica di un individuo è unica, ma può in alcune performance essere desoggettivata. Nei bassi russi che cantano nelle chiese, (e non nell’opera perché in questo caso l’espressività drammatica gioca un altro ruolo), Barthes osserva che nella loro voce non vi è nulla di personale, di originale (tutti i cantori russi usano le stesse tonalità) facendo allo stesso tempo tuttavia percepire che si tratta di un corpo separato, una voce che trascina con sé direttamente il simbolico, passando sopra l’intellegibile e l’espressività.

Desoggettivare è stato un obbiettivo costante di Carmelo Bene, in contrasto con gran parte della nostra cultura polarizzata sull’individualizzazione dei personaggi, sulla loro psicologizzazione. Un carattere che ha distinto in modo spiccato il teatro borghese dall’Ottocento in poi, che ha visto Bertolt Brecht confutarlo con tecniche di straniamento volte a impedire l’identificazione fra lo spettatore e il personaggio; un’identificazione che porta a privatizzare ogni sentimento e situazione.

Questa visione ottocentesca continua a perdurare e la troviamo – vi accennerò dopo – anche nelle più o meno recenti Lecturae Dantis.

L’evento: l’allora sindaco di Bologna Renato Zangheri propone a Carmelo Bene di ricordare a distanza di un anno la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Zangheri non voleva una celebrazione, una cerimonia, un rituale, pensava a un raduno di giovani provenienti da varie parti di Europa. Suggeriva a Carmelo Bene la lettura di alcuni dei canti, fra cui il XVII dell’Inferno sui fraudolenti, e il XXIII sugli ipocriti, in cui si parla proprio di Bologna (si veda: a cura di Rino Maenza, Carmelo Bene Lectura Dantis, cronaca e testimonianze di un grande evento, Mediateca Medianova, 2016, p. 10). Questi canti non saranno presenti nella dizione finale di Bene, fedele proprio al principio che polarizzarsi su delle storie – che tra l’altro sembrano cronache attuali (e per questo Zangheri voleva fossero evocate) –, alludervi, non significa fare Storia, non significa produrre poesia.

La Rai, che si era impegnata a fare le riprese, si è persa per strada fra varie polemiche. Chiedeva anche il copione della performance, suscitando così il sarcasmo di Bene che si domandava se i funzionari Rai conoscessero la Divina Commedia.

Nel 2006 da un vecchio baule spunta un VHS di una videoamatrice Angela Tomasini, oggi regista, che aveva ripreso l’evento da una posizione quasi frontale:

con il volto di Bene in primo piano, illuminato dall’unica luce che rompeva il buio calato sulle torri, sul balcone che spiccava il corpo, da poco sopra la cintola in su. Come Farinata, nel canto decimo di quell’Inferno che aveva in gran dispetto. (Luca Mastrantonio, Il Riformista 7 luglio 2007 – in Rino Maenza, op. cit., p. 70).

Il video che riprende la Lectura di Bene, intercalato con delle immagini della strage di Bologna, è su youtube: Carmelo Bene – Lectura Dantis per voce solista – Un progetto di Rino Maenza e Angela Tomasini, DAMS – Medianova (37’-38’).

La lettura con la musica dai toni medioevali di Salvatore Sciarrino era eseguita da David Bellugi.

Una folla di più di centomila persone, giovani, anziani, mamme, lavoratori dei campi, era presente in strada, molti seduti sul selciato ad ascoltare, silenziosi come in un vuoto pneumatico. Molti conoscevano il Dante della scuola, altri lo ignoravano del tutto. Carmelo Bene ha sottratto a ogni convenzionalità i versi tanto noti di Paolo e Francesca, di Ugolino, di Ulisse, e altri ancora.

Sappiamo che degli illetterati sono (o forse piuttosto erano) in grado di dire interi poemi, dalla Chanson de Roland, alla Divina Commedia, all’Orlando Furioso. Molte persone senza un’istruzione formale muovono il corpo secondo cadenze e ritmi ancestrali in accordo con la modulazione della voce, come nelle ninne nanne, nelle cantilene. Non è un semplice ripetere, è un appropriarsi delle composizioni poetiche (Marcel Jousse, l’anthropologie du geste, Paris, Gallimard, 1974).

Carmelo Bene ha portato in auge il carattere sonoro del poema dantesco iscrivendolo in questa tradizione antica.

È sempre difficile commentare, giudicare le opere di Bene andando al di là delle sue parole.

Carmelo Bene è stato un artista capace di valutare il suo lavoro, proprio sulla scia di The critic as artist (1891) di Oscar Wilde.

In un’intervista al manifesto del 1982, Carmelo Bene, invitato a commemorare il sisma della Campania e della Basilicata dell’‘80, indica chiaramente il fondamento delle sue scelte:

Io non faccio spettacolo fondo l’esistenza. Cosa vuol dire questo tradotto in versi? Non è un modo particolare di dire i versi, è un modo di fondare il verso. Non c’è referente. L’attore in genere, e chiunque di noi dice dei versi, dice Dante supponiamo, non fonda un bel nulla, propone un referente a un linguaggio scritto: da qui non scatta commozione alcuna diciamo delle platee. Per forza non scatta, perché ha un referente nel linguaggio scritto. A questo punto il linguaggio della carta, che fondava già un’esistenza, al momento che è detto, è riferito, è linguaggio morto, ecco. Io taglio ogni referenza possibile con il Dante scritto. Il Dante che dico è mio, nel senso che non appartiene nemmeno più a me, è linguaggio che fonda l’esistenza in quel momento. La lezione di un grande poeta […] è anticivile. (Rino Maenza, ibid. p. 12-13).

Contro ogni somiglianza all’originale, ogni replica o ripetizione, ogni naturalismo, ogni rinvio alla realtà, Carmelo Bene ha condotto la sua battaglia.

Non possiamo sapere con che ritmo e timbro Dante leggesse a viva voce la sua Commedia.

Chissà in quale registro fonetico Boccaccio, a cui dobbiamo l’aggettivo di Divina, ha letto il poema fino all’anno della sua morte.

Gli esegeti si sono prodigati in spiegazioni e parafrasi. Le varie Lecturae Dantis hanno declamato i versi, e soprattutto si sono impegnate a commentarli, a decifrarli. Certamente studiare le fonti storiche e culturali della Divina Commedia è un lavoro complesso, perché il poema di Dante è un’opera epigone, la Summa di un sapere ampiamente codificato alla fine del Medioevo. Summa linguistica, simbolica, culturale. Grande sintesi di un pensiero che aveva già trovato prima di Dante delle forme a cui Dante stesso si è ispirato, frutto di tante influenze culturali. Per l’idea del viaggio nell’aldilà sembra abbia avuto una certa incidenza nella Commedia il libro arabo che narra l’ascesa notturna di Maometto al Cielo (miʿrāj). Il Kitab al-Miraj (Libro dell’Ascensione), tradotto in latino dall’arabo nel 1264 con il titolo di Liber Scalae Machometi. Il contatto, ipotizza Maria Corti, si sarebbe potuto realizzare tramite Brunetto Latini (Dante era stato un suo allievo) che alla corte di Alfonso di Spagna avrebbe incontrato Bonaventura da Siena traduttore appunto del Libro della Scala di Maometto.

Io credo che alcuni passaggi della Commedia ricordino anche il Libro dei morti egiziano, dove si illustra il viaggio nell’Oltretomba. La cultura egizia non ha mai cessato fino al Medioevo e oltre di essere presente in Europa. Si pensi alle statue di Iside del Museo Archeologico di Napoli e del Museo ARCOS di Benevento, alle cattedrali europee quali Notre-Dame edificate su templi dedicati alla deessa egiziana (cfr: Jurgis Baltrušaitis, La quête d’Isis, Paris, Flammarion, 1985).

Solo per sottolineare che la Commedia è il testo che sintetizza tutto un sapere diffuso all’epoca. E dal punto di vista lessicale Dante impiega, contestualizzandoli e dunque definendo una grammatica, una sintassi, tutti i termini di una lingua viva, per costituire una boîte à outils a disposizione di tutti. Opera dunque epigone, compendio della plurisecolare fucina medioevale. Questa estrema codificazione ha creato un sistema linguistico culturale che ancora oggi impieghiamo a piene mani.

Indagando sull’incidenza che la tradizione medioevale ha sul cosiddetto italiano della gente comune, i lessicografi del vocabolario Utet hanno rilevato che ben l’ottanta per cento della lingua coniata dal Sommo Poeta è utilizzato oggi nella vita di tutti i giorni.

Delle parole usate da Dante nella Divina Commedia – ha spiegato De Mauro – otto su dieci sono arrivate vive e vegete fino a noi. Quando parliamo in modo chiaro adoperiamo ancora la lingua di Dante. Le tante parole coniate nel Novecento riguardano sì vocaboli comuni ma non sono fondamentali. Il cuore dell’italiano è ancora dantesco.

Dante ha fatto ricorso alla lingua di una città-microcosmo, Firenze, per definire tutto l’esistente. Una lingua per funzionare deve risuonare di un’armonia interna fatta di suoni, di ritmi, di musicalità, di astrazioni e materialità rispondenti.

Molti dei dicitori che anche recentemente leggono Dante, si adoperano per spiegare, parafrasare un poema che di per sé ha già chiosato tutto il mondo allora noto e che ci è stato trasmesso. Assistiamo anche a variazioni di voce che intendono distinguere i vari personaggi, credendo di singolarizzarli. O ancor peggio simulano con la gestualità gli ambienti descritti da Dante.

In rapporto alla straordinaria performance di Carmelo Bene, questa volontà di spiegare, risulta riduttiva, perché riconduce a un orizzonte realistico, rappresentativo, cioè che ri-presenta, ciò che già conosciamo. E soprattutto toglie a chi ascolta la possibilità di iscriversi nel ritmo del canto, di esserne avvolto.

Carmelo Bene assume in un unico registro (quello della sua propria voce) i vari parlanti. Nell’antichità chi ascoltava un cantore doveva saper distinguere la parola dei vari personaggi (Cfr.: Jean Andrieu, Le dialogue antique. Structure et présentation, Paris, Les ‘Belles Lettres’, 1954). Scrive Andrieu a proposito delle opere greco latine che, ad esempio, Luciano (Samosata 120 circa – Atene tra il 180 e il 192) autore di vari dialoghi, dissimula spesso le identità per lasciare interrogare il lettore sul concetto in sé e non sul chi parla (J. Andrieu, Ibid,. p. 310).

Carmelo Bene adotta questa tecnica in diverse sue opere. In particolare per la Pentesilea (teatro 1989), dove Bene è solo in scena, dobbiamo impegnarci a distinguere quando a parlare è Achille e quando è Pentesilea.

Queste brevi riflessioni per dire che per formazione, sensibilità, intuitività, Carmelo Bene carpiva le mille facce di un’arte antica, che domandava all’ascoltatore di essere attivo.

Ha detto Carmelo Bene:

Nel Novecento ci si è fermati al “parlare cantato” […]: basta con il repertorio, basta con i Rigoletti e con i Mascagni. Bisogna disegnare un metodo nuovo, quello che Deleuze definisce modale, dove gli effetti diventano “modi” (Il Resto del Carlino , 5 luglio 1981, in Rino Maenza, op. cit., p. 37). Cioè per C.Bene la voce è uno strumento musicale.

La lettura di Carmelo Bene è paragonabile a un incedere ora più veloce ora più lento, un incedere continuo senza punteggiatura, modulato con pause e intervalli che conservano sempre un fondo sonoro come un brano musicale, in una “continuità spazio-temporale della variazione” (Gilles Deleuze, Un manifesto di meno, in AA.VV., Per Carmelo Bene, Milano, Linea d’ombra, 1995).

Il testo dantesco letto da Bene si comprende senza difficoltà, senza necessità di commenti e parafrasi. Inoltre, fatto straordinario, a mio parere, è che Carmelo Bene ha colto un tratto essenziale del poema, la sua dimensione autobiografica: qualunque situazione Dante descriva o a qualunque personaggio presti la voce è sempre lui, Dante, il narratore che trasmette ciò che ha visto ed ascoltato. Per questo risulta del tutto superfluo imitare la voce di un tale o tal altro personaggio.

Grazie a diversi apparecchiature amplificatrici Carmelo Bene è riuscito a stabilire un contatto da un di dentro il suo a un di dentro del pubblico, tanto il gioco fonetico ha penetrato ogni fibra.

Carmelo Bene usava solo microfoni musicali sensibilissimi, non da speaker. Non si trattava di semplice enfatizzazione, ingigantimento del detto, ma di una complessa strumentazione, usata come una protesi, insomma.

Solo sulla Torre, non solo la figura di Carmelo Bene plana alto, ma il verso assume una vertiginosa verticalità.

La presenza fisica dell’attore – quasi smaterializzato dalla distanza dell’altezza – [è ridotta] alla voce. La voce che conserva dentro di sé l’irriducibile materialità del corpo – mentre il corpo si sottrae alla banalità patinata dell’immagine (Renato Nicolini, in G. Costa (a cura di) A Carmelo Bene, in Rino Maenza, op. cit., p. 57).

In cima alla Torre non poteva vedere lo sguardo degli spettatori. Si è trovato una folla così vasta come fosse un’apparizione, Madonna la piazza. Carmelo Bene commenta questo evento autobiografico in Sono apparso alla Madonna.

“È a Madonna la piazza che si appare. […] Perché si dia il miracolo, è necessario svanir nel dire. E l’apparire della phoné dice pure il tuo stesso paradosso. Come ‘altrove’ di massa del discorso” (Carmelo Bene, “Sono apparso alla Madonna”, pp. 1120-1131, in Id. Opere, Milano, Bompiani, 1995, p. 1130).

Il 31 luglio 1981 è accaduto qualcosa di epocale: Carmelo Bene ha esaltato il carattere poetico, ritmico, anticivile della poesia. Grazie al sapiente uso di strumentazioni foniche il suono rimbalzava da muro a muro sulle case medioevali, su piazze e vicoli, saldando versi, grain de la voix, l’architettura di Bologna. Ognuno lì presente è uscito dalla grande massa per esistere come persona al singolare.

Grazie al sapiente uso di strumentazioni foniche ha esaltato il carattere poetico, ritmico, anticivile della poesia, attraverso suoni che rimbalzavano da muro a muro sulle case medioevali, piazze e vicoli, ha saldato i versi, le grain de la voix, l’architettura di Bologna. Ognuno lì presente è uscito dalla grande massa per sentirsi una persona al singolare, raccolta in un intenso silenzio.

A un bis prima negato, Carmelo Bene ha poi fatto seguire: “Guido i’vorrei che tu e Lapo ed io…”, e poi “tanto gentile e tanto onesta pare…” in un’atmosfera sospesa.

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