Vecchie e nuove generazioni, mai così distanti, mai così unite

Covid 19, tra shock culturale e resilienza antropologica

di Emanuele Ianiero

In questi giorni si parla di isolamento sociale. C’è chi riscopre le potenzialità del tempo libero facendo cose nuove e dando nuovo valore alla semplicità. C’è chi si tiene in forma, chi ingrassa a dismisura, chi è sempre più social-dipendente, chi non vede l’ora di ripartire e chi studia e lavora da casa impappinandosi nell’etere tra suoni che si interrompono e riemergono velocizzati e video frammentati in tanti quadratini.

Insomma chi più chi meno, ammazza il tempo come può, pensando a tutti quelli che stanno lavorando e soffrendo con un camice, una divisa o in quei lavori che ci mantengono ancora in piedi. Si pensa alle vittime, troppe, di questo nemico invisibile che non consente neanche di salutare degnamente chi ci lascia.

Ma poi ci sono anche loro, le persone anziane, le persone sole, le persone più fragili. Sono le vittime preferite del virus, tanto che alcuni di loro ipotizzano a qualche forma di complotto progettato per risanare le casse dell’Inps. Loro non hanno i “social” perché appartenenti all’era in cui la socialità si congegnava senza libretto delle istruzioni. Non possono incontrare altri, neanche virtualmente. Si possono dedicare di meno all’orticello che li riporta più vicini a quello che manca del passato. Soprattutto sentono di più la solitudine. Vivono quel processo inverso rispetto a quando, magari, furono loro ad essere lontani dal paese d’origine, lasciando a malincuore i genitori e invece adesso i propri cari sono isolati lontani e quei genitori distanti sono loro.

E nella solitudine riemergono più forti i ricordi di quando “isolamento”, “distanze sociali”, “libertà” erano argomenti quotidiani.

Per chi, come me, vive e si nutre quotidianamente di scambi, di ricordi, di racconti del tempo che era, di vicinanza a generazioni distanti, ma unite dalla forza di andare avanti, in questi giorni particolari si smuovono ricordi che rendono più meditativo questo clima di smarrimento e di incertezza.

Per chi non sfuma il volume di queste voci melanconiche, ma si perde nelle storie di chi ha vissuto prima di noi. Per chi si sente come davanti a dei libri di storia parlanti solcati dai segni del tempo, ma proprio per questo consunte dall’esperienza. Per noi, mai come ora, risuonano assonanze tra quello che stiamo vivendo e le risposte, le soluzioni che a tali problemi hanno saputo trovare le persone che ho sentito raccontare.

C’è chi fa autoironia, dicendo che forse sarebbe stato meglio imparare ad usare “‘R Zapp” (Whatsapp) per riuscire a comunicare come i giovani, oppure c’è chi si meraviglia del fatto che non si trovano più lievito e farina. C’è anche chi fieramente dice che è da fessi lamentarsi perché oggi, anche se chiusi in casa, possiamo addirittura dilettarci con tante ricette particolari mentre loro da piccoli vedevano tutti i giorni solo “paniccia” e pizza di mais.

L’igiene di allora? Manco a dirlo, che scoppiano tutti in fragorose risate, accompagnate da parole dialettali come “pusciatur” (il vaso da notte), “’mis a l fratt” (nel bosco) ed evitiamo altri dettagli.

C’è chi accosta l’idea di isolamento a quei lunghi inverni nevosi in cui bisognava per forza rimanere in casa. Qualcuno ricorda quello che si provava quando i genitori non gli permettevano di uscire con le amiche mentre gli altri andavano a giocare.

C’è anche chi ricorda il primo viaggio senza ritorno per Roma, da solo, a 16 anni. Dello smarrimento, della malinconia, della solitudine, delle lettere che la mamma gli scriveva e che non riusciva mai a finire di leggere, perché si metteva a piangere. E al ricordo le lacrime deve asciugarle tutt’ora.

Raccontano del freddo che provavano quando percorrevano chilometri sotto la neve per raggiungere la scuola. Una frase mi ha sempre colpito perché fa capire la forza emotiva che è stata richiesta loro sin dalla giovane età: “gli studenti dovevano scegliere la bacchetta migliore, quella più adatta per il maestro e poi portargliela a scuola. Ma era la stessa che poi avrebbe usato su di noi”.

I tanti partiti e non tornati che hanno avuto modo di avere una “cascia” come letto, appena arrivati a destinazione. Chi è rimasto, invece, ricorda del padre che allevava due maiali all’anno, uno per pagare le tasse e uno per la famiglia.

* L’incredulità provata nell’ascoltare queste storie (inoltre molte sono narrate per telefono, visto il momento) sta nel sentirli raccontare cose incredibilmente tristi e struggenti con una semplicità disarmante, come se stessero raccontando “Cappuccetto Rosso”, ma qui il lupo c’è per davvero *

Ricordano quando c’erano i bombardamenti per la guerra e da piccolini li facevano andare di corsa sotto una grotta per proteggerli.

A qualcuno tornano alla mente i tempi del militare; poteva capitare di ammalarsi e di essere ricoverati in ospedale, lontanissimi da casa e quando gli altri ricevevano tante visite, a lui nessuno lo andava a trovare, perché i genitori non avevano i soldi per partire. “Rispondevo a chi mi chiedeva che i miei erano lontani”.

Ed infine riporto in forma diretta una testimonianza tra le più toccanti, raccontatami qualche anno fa, ma mai registrata, perché la protagonista tiene molto a questa storia e la custodisce come un’opera inestimabile, che quasi perde valore se diventa comune. La ricorda come fosse ieri, ma ogni volta sembra riviverla; tanto forte è la potenza con cui la narra che decido di farmela raccontare di nuovo per telefono:

“Papà è andato in guerra quando avevo 7 mesi e ci è rimasto per 7 anni. Non sapevamo niente di lui, finchè un giorno, mentre ero sola con una signora anziana, ci venne incontro un uomo. Lui chiese alla signora informazioni sulla mia famiglia. La signora, quando lo vide, chiese subito se portava notizie di mio padre, perché era da tanto che non tornava. L’uomo si voltò, allora, verso di me chiedendomi il mio nome e disse “vai a dire a mamma che è arrivato papà”. Era la prima volta, a 7 anni, che vedevo mio padre.”

Possiamo, quindi, parlare di gente immune al concetto di “Isolamento”? O sono loro le persone che lo sentono maggiormente, perché desiderosi di non riviverlo?

Sembra quasi che solo ora alcune cose ci appaiono più chiare e ripensiamo all’importanza di stare più accanto a chi vuole ricordarci di quello che ha passato affinché non si ripeta. Solo ora riusciamo a non farci appannare dalla vita frenetica che abbiamo dovuto mettere forzatamente in stand-by.

“Si stava meglio quando si stava peggio?”. Non lo sappiamo. Ma forse questa pandemia ci può lasciare un insegnamento, una specie di modo per ripensare a quello che prima non si riusciva ad apprezzare. Ringrazieremo forse, un giorno, di aver potuto assaporare per un pò l’assenza dell’essenziale nascosto dietro le cose che più si danno per scontate.

Chissà, allora, se dopo tutto questo trambusto ci ricorderemo che siamo ancora in tempo per stringere una mano, per fare una carezza, per mostrarci più vicino alle tante persone che sono qui da molto tempo prima di noi e che hanno tanto da dirci e da insegnarci. Loro, che avrebbero sicuramente molti valori da trasmettere a quelli che all’inizio dell’emergenza se ne sono usciti con la “sparata”: “Tanto muoiono solo i vecchi”. Loro che hanno bisogno di chi si fa foglio bianco, di chi si fa spartito dove poter imprimere le note della memoria da conservare per dare un senso a ieri, a oggi e a domani.

Loro che mai come ora restano DISTANTI da noi e da quel tempo che fu, ma UNITI nell’aiutarci a vincere anche questa situazione e a sperare di tornare vicini non dovendo comunicare dall’alto di un balcone.

Grazie agli amici diversamente giovani che condividono con me i ricordi e le emozioni della loro vita affidandomi e condividendo un patrimonio di valori che non si trova in nessun libro, sperando di aver amplificato, quel giusto che serve, le emozioni delle loro voci.

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