Il 20 marzo del 1979 moriva Mino Pecorelli – Un giornalista vero che qualcuno voleva screditare persino con le foto

di Giovanni Petta

Per ricordare Mino Pecorelli, nel quarantatreesimo anniversario della sua morte, partiamo dalla fotografia diffusa al momento della sua morte e riproposta in modo ossessivo negli anni successivi, ogni volta che si trovavano tracce della sua puntigliosa attività di giornalista in settori diversi ma sempre importanti della storia del nostro Paese.

Se in altre occasioni si è partiti dall’universale della situazione politica dell’Italia del tempo, e da quella che riguardava l’ordine pubblico e la presenza di bande criminali nella Roma degli anni Settanta, per poi arrivare ai particolari di quanto accadeva in via Tacito, sede dell’”Osservatore politico”, e di quanto successe in via Orazio la sera del 20 marzo 1979; questa volta procediamo in senso inverso e partiamo da una fotografia. E lo facciamo stimolati da una riflessione dell’avvocato Valter Biscotti, autore per Baldini & Castoldi del libro “Pecorelli deve morire”.

La fotografia è appunto quella che viene divulgata subito dopo la morte del giornalista. È una foto-tessera, di quelle che all’epoca si scattavano nelle cabine automatiche sistemate, nella maggior parte dei casi, nel perimetro delle stazioni ferroviarie. Chi ha l’età per ricordarlo sa che ci si metteva in possa e si attendevano i quattro scatti consecutivi del marchingegno automatico. C’era il tempo, tra uno scatto e l’altro, di cambiare posa. A volte, per un documento servivano solo tre fotografie e allora al quarto scatto si faceva una smorfia o si sorrideva, oppure si assumeva l’atteggiamento di un attore di Hollywood. In qualche occasione si utilizzava la cabina per scattare foto e riderne con gli amici.

Pubblichiamo qui le foto che Mino Pecorelli fece, chissà in quale occasione, per gioco, per burla. Sono tutte molto belle e solari. Perché Mino Pecorelli era un bell’uomo, con un bel fisico e bei lineamenti. Le foto sono sette, parte di due serie di quattro ognuna. Delle quattro foto di una delle due serie, dunque, viene scelta – da chi viene in possesso delle foto subito dopo la morte del giornalista – quella in cui il giornalista fa le boccacce, fa i labbroni verso l’obiettivo che lo immortala. Viene diffusa quella più brutta, quella che può screditare, persino iconograficamente, il giornalista d’inchiesta. E quella immagine sarà per decenni l’immagine di Pecorelli nel tentativo fallito solo ora – finalmente possiamo dirlo – di farlo passare per altro rispetto a ciò che era.

Mino Pecorelli era un giornalista vero. Non faceva il copia e incolla dei comunicati che arrivavano in redazione ma andava a cercare la notizia e la pubblicava per primo. Aveva fonti di informazione che ogni giornalista vorrebbe avere: politici, militari, alti prelati, industriali, colleghi giornalisti, appartenenti ai servizi di intelligence civili e militari. Era in possesso di una fitta rete di relazioni, della logica necessaria per incrociare efficacemente i dati, della capacità di leggere i bilanci delle aziende. Attraverso tutto ciò comprendeva, capiva, rilevava e rivelava le cause di ciò che la maggior parte dei cittadini, e la maggioranza dei giornalisti, riesce a osservare solo nei suoi effetti.

Da quarantatré anni si cerca l’assassino e il mandante di quel delitto. Si è cercato in ambienti di mafia e tra i politici. Forse la strada è un’altra; così ci dicono le nuove indagini, riaperte dopo tanti anni. «Sono sicuro che la verità è nelle carte del processo di Perugia – dice l’avvocato Valter Biscotti, legale di Stefano, il figlio di Mino Pecorelli -; il problema è che quelle carte sono tantissime». Insomma, dopo tanti anni, l’assassino del giornalista sessanese potrebbe ancora nascondersi tra un rigo e l’altro, nelle sillabe di una parola e persino nel rallentamento dovuto a un segno di punteggiatura.

«Sono convinto – dice ancora l’avvocato Biscotti – che se si fosse fatta, nell’immediato, un’indagine più scientifica e tecnica, come si fa oggi, se si fosse indagato meglio sulla cravatta con ancora attaccati i frammenti di vetro… se si fosse indagato sull’auto bianca che alle otto e mezza era parcheggiata nei pressi dello studio di Mino, con a bordo due persone sul sedile di dietro e un uomo al volante, come in attesa di qualcuno che doveva fare qualcosa e risalire immediatamente… Ecco, se si fosse indagato su tutti i particolari tecnici, come si fa per un qualsiasi omicidio, forse ora saremmo più vicini alla verità. L’aver cercato sovrastrutture politiche – Andreotti, Vitalone ecc. – ha fatto male all’indagine».

Quindi, nel passaggio dal vecchio al nuovo millennio, si sbiadisce il sospetto che per tanti anni era rimasto su Andreotti. «Sì – spiega Biscotti -, Andreotti non aveva bisogno di uccidere un giornalista. Riceveva attacchi continui, era abituato, e le cose che Pecorelli scriveva di lui non erano novità. Sono sicuro che il movente della morte di Pecorelli va cercato nei suoi articoli, nella sua attività di giornalista, ma Andreotti non c’entra niente. Così come non c’entra niente la Mafia. Erano anni in cui la Mafia non avrebbe commesso un omicidio fuori dai confini della Sicilia. Eravamo troppo lontani dagli attentati degli anni Novanta a Roma, Milano e Firenze».

In questa nuova fase delle indagini, anche i giornalisti hanno finalmente sentito la necessità e il dovere di schierarsi al fianco della sorella di Mino, Rosita, dei figli e dei famigliari che da oltre quarant’anni sono portatori di un’istanza di giustizia e verità. «Sono fiducioso – dice l’avvocato Giulio Vasaturo, legale della Federazione Nazionale Stampa Italiana – del fatto che nei prossimi mesi possa arrivare una svolta. Confidiamo nel lavoro della Procura di Roma con cui siamo in contatto. Questo è un crimine che non potrà rimanere impunito; per questo motivo, in questa fase, c’è la nostra costituzione di parte offesa».

L’avvocato Claudio Ferrazza, legale di Rosita Pecorelli, dice, invece, che «al di là del risultato delle indagini in corso, c’è da essere soddisfatti del fatto che ormai, almeno dal processo di Perugia in poi, è stato accertato – è negli atti e nessuno può dire il contrario – che Mino Pecorelli non era un ricattatore come si è cercato di farlo passare per anni, non vendeva notizie per denaro, ma era un giornalista d’inchiesta di qualità. Anzi, possiamo dire che è stato il padre del giornalismo d’inchiesta così come s’intende oggi e che all’epoca non esisteva».

 

Giovanni Petta76 Posts

È nato nel 1965 in Molise. Ha pubblicato le raccolte poetiche «Sguardi» (1987), «Millennio a venire» (1998) e «A» (2016); i romanzi «Acqua» (2017), «Cinque» (2017) e «Terra» (2021) ; il saggio giornalistico «L'Italia delle regioni, il Molise dei ricorsi» (2001) e, con lo pseudonimo di Rossano Turzo, «TurzoTen« (2011) e «TurzoTime» (2016). Allievo di Mogol, ha inciso «Non crescere mai» (1993), «Trema terra trema cuore» (single, 2003), «Il bivio di Sessano» (2012). Ha diretto le testate «Piazzaregione» e «L'interruttore». Ha coordinato l'inserto molisano de «Il Tempo».

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