Per fabbricare le fabbriche

In verità, prima di costruire gli stabilimenti produttivi occorre redigere i piani delle zone industriali. Una lettura dei problemi urbanistici connessi.

Occorre iniziare con una premessa che è quella che nelle Zone D degli strumenti urbanistici è prevista quale modalità di attuazione il Piano per gli Insediamenti Produttivi. Ciò a partire dal 1971, cioè dalla legge 865 di quell’anno perché prima, e quindi dall’entrata in vigore della Legge Urbanistica nel 1942, non era stabilita alcuna forma di pianificazione esecutiva per le aree industriali e artigianali. Né si può ritenere che essa sia equivalente ai Piani Particolareggiati né ai Piani di Lottizzazione i quali sono stati pensati per lo sviluppo residenziale. È ben difficile operare con i piani di dettaglio simili le cui procedure amministrative e i tempi, in particolare i piani di lottizzazione, non si addicono agli insediamenti produttivi a meno che non si voglia ridurre la pianificazione ad un semplice frazionamento fondiario.

I piani di lottizzazione, peraltro, così come concepiti dalla legge 1150/42, sono di iniziativa privata, cosa che si addice ad un’organizzazione dello spazio in cui vi è un utilizzo individuale dei lotti mentre l’intera Zona, in pratica, viene ad essere un semplice contenitore degli stessi (salvo che non si stia parlando di veri e propri quartieri nei quali vi sia una stringente compenetrazione nel disegno di piano tra abitazioni e attrezzature collettive e allora siamo di fronte a piani particolareggiati). Va precisato, comunque, che se i piani di lottizzazione vengono predisposti in supplenza del Piano Particolareggiato che è, invece, di esclusiva competenza comunale, è veramente arduo immaginare qualcosa di equivalente ad essi per il Piano per gli Insediamenti Produttivi. Quest’ultimo ha valore di piano particolareggiato perché per entrambi è previsto l’esproprio delle aree; li distingue, invece, il fatto che nel piano possono essere individuati degli stralci e le fasi temporali all’interno delle quali realizzarle, cosa differente dai Piani Pluriennali di Attivazione e l’obbligo che esso deve essere corredato da una previsione delle spese.

La principale differenza, però, la si ritrova nei criteri tecnici seguiti per la loro elaborazione. Nei progetti di PIP si tende alla flessibilità nella ripartizione della superficie edificabile, magari fissando un lotto base di medie dimensioni e un ambito libero adiacente per una eventuale sua espansione e ciò lascia una grande libertà alle imprese. C’è un altro modo di impostazione, questo più vicino a quello che impronta i piani particolareggiati ed è la definizione unitaria dal punto di vista urbanistico se non anche edilizio dell’areale fabbricabile. Quali esempi per le due opposte tipologie di concepimento della pianificazione vi sono l’Agglomerato Industriale di Campochiaro ove le fabbriche possono estendersi attraverso l’ampliamento del lotto assegnato dal PIP di S. Croce di Magliano da Pierluigi Cervellati in cui i capannoni artigiani con sovrastanti abitazioni per gli operai sono disposti a schiera.

L’elasticità che connota i PIP della prima categoria descritto che sono quelli maggiormente diffusi è conseguenza della variabilità della domanda, cioè delle notevoli esigenze delle aziende che vorrebbero installarsi lì. L’assetto di un comprensorio destinato alla produzione di tale genere, deriva, quindi, da un bilanciamento tra domanda e offerta, la quale non si limita al taglio dei lotti, ma riguarda pure la dotazione di infrastrutture particolari che costituiscono fattori localizzativi importanti. Vi è, in definitiva, una distanza enorme nel disegno dei PIP e dei Piani Particolareggiati nei quali occorre indicare solo i «tipi edilizi». Andando oltre è da dire che è opportuno che per i PIP nelle realtà avanzate si effettua un’attività promozionale finalizzata a far conoscere al mondo imprenditoriale i vantaggi della localizzazione in quella determinata area attrezzata, attrezzata con una qualificata dotazione infrastrutturale, insieme, è ovvio, al contenuto costo insediativo.

Il PIP, dunque, richiede una gestione che, alla stregua della sua redazione, è compito dell’amministrazione, seppure può essere affidata a terzi. Il motivo di fondo è che esso va inteso quale strumento di politica economica; sempre, per rimanere al confronto, si evidenzia che i piani particolareggiati sono all’interno di atre strategie, quelle della casa, della qualità della vita, ecc. I PIP sono materia della sfera pubblica, il punto che si è raggiunto sopra, il che significa che nonostante di iniziativa del Comune nella loro determinazione vengono coinvolti altri livelli istituzionali. In primis la Regione la quale in base all’art. 27 della già citata legge 865/71 deve rilasciare l’autorizzazione preventiva alla loro formulazione, limitando così i poteri comunali nel campo pianificatorio; è una ulteriore differenziazione, peraltro, dai piani particolareggiati. Si ritiene non casuale, per la loro duplice natura urbanistica ed economica, la contemporanea nascita dei PIP e dell’ente regionale.

Nella situazione molisana caratterizzata da una frammentazione insediativa con tanti piccoli Comuni sarebbe opportuna, in generale e in specifico per l’aspetto che trattiamo, una pianificazione sovracomunale nella quale ricomprendere la localizzazione dei PIP perché non è credibile che a scala locale sia fattibile la definizione di una programmazione nel settore produttivo, presupposto essenziale per tali piani. La pianificazione di area vasta è quella meglio confacente in quanto qui si colgono i nessi tra industria e territorio. Per quanto riguarda semplicemente le modalità gestionali , non le scelte pianificatorie, si è avuto il passaggio circa un decennio fa di molteplici PIP, da Piana d’Ischia di Trivento a quella di Carpinone, ad un organismo formato da rappresentanti comunali, il PRUSST. È un’esperienza lunga quella maturata nel nostro territorio quella dei Consorzi composti da membri nominati dai Comuni con la partecipazione di istituzioni varie, i Nuclei Industriali voluti dall’Intervento Straordinario nel Mezzogiorno cui si deve la creazione dei 3 Agglomerati Industriali molisani la gestione dei quali continua ad essere affidata ai predetti Nuclei in attesa di una legge regionale di riordino complessivo.

In conclusione, è utile ai fini del discorso intrapreso sulla portata innovativa dei PIP nel campo della pianificazione urbanistica attuativa, in precedenza limitata ai piani particolareggiati, mettere in luce che ciò non è ancora avvenuto per l’organizzazione spaziale del territorio e ci si sta riferendo essenzialmente alle attività direzionali lasciate ad una condizione di autodeterminazione.

Francesco Manfredi Selvaggi641 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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