Se toccate uno, toccate tutti

di Paolo Di Lella

Per una volta concedetemi di partire dalla fine. A sangue caldo, appena tornato dal corteo dei braccianti a Foggia, c’è una considerazione che voglio subito condividere, prima ancora di raccontare più freddamente ciò che è accaduto. Spesso sentiamo dire – e talvolta ce ne convinciamo persino – che non esiste più nulla che leghi gli sfruttati, che l’unità di classe è impossibile e che l’egoismo si è impossessato irreversibilmente di ciascuno di noi.

È quello che vogliono farci credere. Loro, gli sfruttatori.

Il mantra che molti intellettuali da salotto con l’aria da scienziati sociali continuano a ripetere, ad esempio, è quello che esisterebbero dei soggetti sociali non sindacalizzabili, le cui rivendicazioni non potrebbero sconfinare il livello individuale, soggetti incapaci di fare politica, incapaci di agire collettivamente.

È il segno dei tempi, a quanto pare. Tempi in cui i sindacati confederati non hanno più nessun rapporto con le nuove forme che il proletariato ha assunto. Non i tempi di Di Vittorio, per capirci.

Non molto tempo fa, Cgil Cisl e Uil hanno firmato un nuovo contratto per i braccianti spuntando ai padroni della grande distribuzione un’aumento salariale di ben 83 centesimi di euro. Lordi, per altro.
Oggi pomeriggio, proprio mentre pubblichiamo questo articolo, i sindacati “di massa” sfileranno per le vie di Foggia e ci racconteranno che i sedici braccianti morti negli ultimi giorni sono loro fratelli e che loro vogliono combattere il caporalato e lo sfruttamento.
Peccato che non sono credibili. In primis perché nel momento decisivo – quando si sono seduti al tavolo delle trattative – se ne sono fottuti dei loro fratelli, ma soprattutto perché loro, i sindacalisti di massa, con i fratelli rimasti sull’asfalto tra i pomodori non ci hanno mai parlato.

Certo, va detto che non è facile fare il lavoro sindacale e politico tra i settori più sfruttati della classe, tra chi non può avere la stessa lucidità di analisi o la destrezza dialettica dei nostri cervelloni che affollano i talk show. È difficile convincere chi non ha niente che c’è una prospettiva comune da inseguire, da guadagnare con le unghie e con i denti. É più facile difendere i diritti – non dico che è sbagliato – già consolidati.

È una questione di scelte. Si può stare in trincea sulla difensiva o provare ad attaccare.

Ebbene, stamattina l’Unione dei Sindacati di Base, con in testa un vero capo sindacale, Aboubarakar Soumahoro, uno riconosciuto dai braccianti come uno di loro, ha dimostrato che centinaia di sfruttati non sindacalizzabili – secondo loro – possono scendere compatti in strada e gridare: “se tocchi uno, tocchi tutti”.

Subito dopo l’alba, i fratelli dei sedici braccianti morti mentre tornavano da una giornata di lavoro, i loro compagni di lavoro e di vita, hanno deciso di scioperare, e dall’ex ghetto di Rignano hanno marciato fino alla zona del cimitero (significativamente un non-luogo, compreso tra due immensi edifici industriali abbandonati) per unirsi ad altri compagni arrivati da fuori regione, tra cui spiccavano militanti e simpatizzanti di Potere al Popolo e di Rifondazione.

Il corteo ha percorso le strade di Foggia fino alla Prefettura. Rumoroso come un drappello di ultras, ordinato come una truppa dell’esercito; organizzazione perfetta, compagni impeccabili. Abou è dappertutto, urla dal microfono del furgone, parla con i giornalisti, si arrabbia con i manifestanti che camminano ai lati del corteo. Poi, davanti al Palazzo del Governo prende la parola e parla a tutti: ai fratelli, ai giornalisti, al Presidente della Regione Emiliano (che ha partecipato alla marcia fino alla fine, ma quanto a credibilità, per lui vale lo stesso discorso fatto sopra sui sindacati), perfino all’Esecutivo nazionale.

Abou ha ricordato la tragedia di Marcinelle in cui morirono sepolti 300 minatori. “Il nostro futuro ha radici in quella memoria”, ha detto. Poi ha ricordato Di Vittorio, le sue lotte per i braccianti della Capitanata: “padroni erano ieri, padroni erano oggi, sfruttatori erano ieri, sfruttatori sono oggi, braccianti erano ieri, braccianti sono oggi”. Si è inorgoglito Abou, rivendicando la giornata di sciopero come una conquista politica, con i lavoratori – quelli su cui nessuno avrebbe scommesso – che hanno sfidato lo strapotere della grande distribuzione, dei caporali, degli sfruttatori. Infine, si è scusato con i giornalisti per non essere stato abbastanza disponibile con loro, perché “chi fa sindacato, chi fa lotte sociali non sta nelle sale dei convegni ma nelle campagne con gli stivali”.

Un altro futuro è possibile, a patto di non aver paura del fango.

Paolo Di Lella100 Posts

Nato a Campobasso nel 1982. Ha studiato filosofia presso l'Università Cattolica di Milano. Appena tornato in Molise ha fondato, insieme ad altri collaboratori, il blog “Tratturi – Molise in movimento” con l'obiettivo di elaborare un’analisi complessiva dei vari problemi del Molise e di diffondere una maggiore consapevolezza delle loro connessioni. Dal 2015 è componente del Comitato scientifico di Glocale – Rivista molisana di storia e scienze sociali (rivista scientifica di 1a fascia), oltre che della segreteria di redazione. Dal 2013 è caporedattore de Il Bene Comune e coordinatore della redazione di IBC – Edizioni. È autore del volume “Sanità molisana. Caccia al tesoro pubblico”. È giornalista pubblicista dal 2014

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