Immacolata. Una giornata da psicoanalisi per la sinistra

di Michele Mezza

Nonostante la festività che celebra una delle ricorrenze più discusse e teologicamente contese dell’iconografia cattolica, quale il dogma dell’Immacolata concezione, si sono intrecciati temi ed eventi che hanno reso fin troppo evidente lo stato di prostrazione culturale e spaesamento sociale che vive la cultura erede dell’alterità al capitalismo.

Sul lettino di un ipotetico psicoanalista un paziente che restava muto alle diverse sollecitazioni: l’inanellarsi di nuove emergenze della pandemia che impongono scelte radicali sul versante della regolamentazione sanitaria, il riunirsi di un polo no vax che vuole rifarsi a pezzi di elaborazione di sinistra, l’anniversario dello scioglimento dell’Urss, che qualcosa dovrebbe comunque dire a chi proviene da tradizioni non indifferenti a quell’esperienza, e infine il dibattito sullo sciopero generale promosso dalla Cgil, che potremmo definire una soluzione in cerca di un problema.

Il filo conduttore di questi nodi che si sono concentrati tutti nella stessa giornata è stato il silenzio, l’assoluta indifferenza, da parte di chi in qualche modo doveva sentirsi interrogato da quegli eventi. Tace sia chi oggi gestisce l’eredità testamentale di quel filone che proviene dalla sinistra organizzata, e avrebbe la responsabilità di farci intendere quale siano le ragioni che possano giustificare una candidatura al governo del paese, quali le differenze rispetto all’attuale governance, tanto più in una congiuntura così complessa e drammatica, e sia chi critica quella gestione nelle diverse posizioni, organizzate o meno, che si osservano fuori dal perimetro del Pd, che avrebbero l’opportunità di manifestare le lacune da colmare nella direzione dell’attuale centro sinistra.

Eppure i nodi che si sono proposti non sono certo né astratti né secondari: cosa vuol dire riorganizzare scuola, lavoro e amministrazione al tempo di un distanziamento sociale che diventa strutturale ed endemico? Con quali vincoli e quale senso pubblico? Come atteggiarsi rispetto alle richieste sindacali di un forte riequilibrio sociale: per quali ceti e con quali fini? Cosa si intende per conflitto sociale nel quadro di un governo di così larga coalizione? E poi, ultima della serie, ma non certo ultima di significato, che cosa dire a trent’anni dalla cancellazione, del tutto indolore, dell’Unione Sovietica  come storia, esperienza e contenuto di una sinistra che pure vi aveva basato identità e modello geopolitico?

Sono quesiti che non possono rimanere a mezz’aria, né essere esorcizzati con l’alibi delle emergenze sanitarie. Proprio le emergenze che si ripropongono ci portano a dover riflettere su quale strategia e quale assetto sociale proporre per fronteggiare una lunga transizione e non una intensa ma occasionale crisi.

L’assemblea promossa dai filosofi no vax, ad esempio, non può essere declassata a pura sceneggiata o eccentricità. I nomi dei protagonisti, i temi trattati, e forme di contaminazione che da quella sala toccano perfino ambiti più strutturati delle esperienze di sinistra, a livello sindacale, o culturale, impongono una riflessione visibile e chiara.

Rifugiarsi solo in una piatta adesione alle direttive del Generale Figliuolo, certamente concorre alla buona riuscita della campagna vaccinale, ma non fornisce un orientamento più di fondo, che dia forma e contenuto a una comunità di sinistra.

Il nodo  posto dai no vax, e per certi versi ancora di più, dai no green pass, che arrivano anche nel cuore della Cgil, riguarda l’idea stessa di democrazia rappresentativa, in cui la maturazione di una scelta collettiva, che si pone come punto di equilibrio nella sicurezza fra diritti individuali e tutela comunitaria da nuova linfa e credibilità a uno  stato che a quasi ottant’anni dalla resistenza antifascista ha bisogno di nuova mission, di una nuova legittimazione, di una più adeguata mission ai tempi per rinvigorire la sua autorevolezza.

A due anni dalla pandemia, abbiamo sentito molte adesioni alle tesi più sensate degli scienziati ma poche visioni che dessero potenza a un’egemonia della sinistra. E se non ora quando la sanità pubblica diventa madre e non matrigna e quando lo stato impresario diventa indispensabile e non imposizione, quando? Certo che, per avventurarsi su questi sentieri, bisogna avere ambizioni politiche e culturali che non s’identificano nella semplice buona amministrazione di quello che c’è. Così come la riflessione sul conflitto sociale che giustifica di per sé lo sciopero della Cgil, appare povera e anche contraddittoria.

Nel migliore dei casi, abbiamo sentito posizioni certo motivate e a volte persino fondate, quali quelle di  Fabrizio Barca, che dà voce a un’esasperazione per l’immobilismo politico di questi anni, e a una non moralistica indignazione per le sperequazioni che si confermano in tutta la loro scandalosa cronicità. Posizioni che celebrano il ritorno di un generico conflitto sociale e reclamano la richiesta di forme di riequilibrio nella distribuzione delle risorse che arrivano dall’Europa per colmare le voragini prodotte da quella lotta di classe al contrario, come l’aveva definita nel suo ultimo saggio, Luciano Gallino.

Ma davvero il conflitto che può mutare il corso delle risorse e il fine dei poteri è quello che reclamano Cgil e Uil sulle aliquote IRPEF? E le relazioni industriali dove sono? In un paese dove si registrano profitti a doppia cifra, incrementi del pil senza precedenti, affanno nelle produzioni di massa e difficoltà a reperire forze da occupare non si riesce a porre una questione salariale a carico degli imprenditori?

Non si riesce a porre la questione di una diversa dislocazione delle geometrie produttive che modifichi quella fisarmonica fra precariato e trasparenza dei diritti che ancora guida le congiunture industriali? E, soprattutto, non si riesce a riscrivere quella prima parte dei contratti che intacchi il dominio assoluto di quella zona grigia, inviolabile, di sovranità decisionale che vede manager, consulenti e fornitori di tecnologie programmare a piacimento la fisionomia di intere regioni e di estese comunità?

Una straordinaria visione del lontano dopoguerra che ancora oggi non abbiamo metabolizzato. Quale altro popolo per contrastare questo popolo di manager senza controllo?

Polemos è il padre di tutte le cose buone diceva Eraclito, ma Polemos e non ammuina.
Oggi il nodo, antropologico più che politico per la sinistra, se vuole esistere e non solo sopravvivere, è popolare di meccanica negoziale quel mondo digitale dove, come ci spiegava Shoshanna Zuboff nel suo saggio Il capitalismo della sorveglianza (LUISS Editore), esiste solo la volontà dei monopoli del calcolo.
Il governo italiano, nei giorni scorsi, ha approvato l’indirizzo per la strategia dell’intelligenza artificiale del paese. Sanità, informazione, industria e pubblica amministrazione saranno modellate in base a questi valori. Chi ha detto qualcosa? Chi ha eccepito?

Nemmeno il Forum delle diseguaglianze dello stesso Barca, che è uno dei pochi centri sensibili a sinistra, se n’è accorto. Non parliamo di Pd e sindacato. Ma se non è conflitto questo, cosa è? IL PNRR, per circa l’ottanta per cento dei suoi 230 miliardi, prevede misure basate proprio su queste tecnologie di intelligenza predittiva. Dov’è la sinistra? Certo che per misurarsi su questi temi bisogna mettere sul tavolo la propria organizzazione, il primato dei propri gruppi dirigenti, le rendite di posizione dei gruppi parlamentari. Non s’imbastisce una vertenza sull’Intelligenza artificiale con una struttura basata sulle categorie di cinquant’anni fa come la Cgil, o su un partito tutto basato sulla pubblica amministrazione, come il Pd, e soprattutto senza, parallelamente, pensare a forme decisionali condivise e progressivamente contaminate dalla rete.

Su questi aspetti si gioca la prospettiva di un protagonismo della sinistra che vada al di là della quiete successione del personale di governo che vediamo in corso in Germania, dove nel migliore dei casi si spera che l’attuale governo del socialdemocratico Scholz non faccia rimpiangere Angela Merkel.

In questo contesto i tren’anni che ci separano dalla scomparsa dell’Urss non possono essere considerati pura cronaca. Quell’evento annunciava non solo la cancellazione di quella esperienza, ma il default dell’idea stessa di sinistra. Nelle sue versioni, dalle socialdemocrazie nord europee alla Cina di XI Jinping,  vediamo come centrale sia esclusivamente la potenza nazionale più che il cambio delle forme di potere economico.

L’ammainamento della bandiera rossa sulle guglie del Cremlino, la notte del 25 dicembre del 1991, che ebbi la ventura di testimoniare, non annunciava solo il cambio di regime in quel paese, ma apriva un cratere nella storia e nell’attualità dell’intero movimento del lavoro globale che si trovava senza nessun riferimento, né positivo né negativo, rispetto al quale potersi definire per contestare l’unicità del potere proprietario nel capitalismo tecnologico.

Il brodino della terza via, che fu servito in varie occasioni sulla mensa dei leader delle sinistre occasionalmente al potere, è evaporato insieme al credito di questi leader, da Fidel Castro a Blair. Rimane l’interrogativo di un pianeta dove contraddizioni epocali, dall’ambiente alla pandemia, pongono con terribile attualità il tema di una nuova cultura della convivenza, della gratificazione, della soddisfazione di quelle pretese che crescono in ogni popolazione che entra nel circuito della modernità, senza dismettere le proprie ambizioni e culture.

Parlare a queste moltitudini non solo in termini di pura accoglienza nel modello di un capitalismo irrequieto e creativo ma pur sempre rigido e occidentalista, rimane l’opportunità di chi voglia continuare, come diceva Claudio Napoleoni, a cercare ancora. Cercare un modello che assume a non rifiuti quella capacità di emancipazione che le forme di tecnologie intelligenti contengono.

Cercare ancora forme di protagonismo sociale che non deleghino ad apparati burocratici l’assetto dei sistemi di connessione sociale. Cercare ancora valori e obbiettivi che diano razionalità ed efficienza a una distribuzione equa e funzionale delle risorse che questa nuova economia intelligente produce. E cercare ancora chi oggi abbia l’interesse materiale, la passione e la capacità per vedere come tutto questo possa essere, irrealisticamente, possibile.

Poco più di quarant’anni fa, persino nel nostro paese, ebbe grande successo, il saggio di Erich Fromm  Avere o essere?, in cui profeticamente lo psicoanalista francofortese introduceva come categorie fondanti delle nostre relazioni sociali, in luogo della contraddizione capitale /lavoro, egoismo/altruismo, per meglio leggere le dinamiche che avrebbero disegnato il profilo delle comunità in Europa. Il rigetto a sinistra fu esplicito e generalizzato, benché fossimo già, siamo all’inizio degli anni Ottanta, vicini al burrone al fondo del quale s’intravvedeva un’adeguatezza  dell’insieme delle esperienze legate al movimento del lavoro rispetto alle multiforme geometrie del capitalismo immateriale. Ci si rifugiava negli ultimi falò di una conflittualità industriale che sarebbe poi scemata proprio per le trasformazioni  tecnologiche del sistema economico e relazionale che avrebbero ridisegnato motivazioni e immaginario globale dei ceti produttivi.

Fonte: ytali

0 Comments

Lascia un commento

Login

Welcome! Login in to your account

Remember me Lost your password?

Lost Password