Il capovolgimento kafkiano della realtà

di Marco Revelli da il Manifesto

Non ho mai condiviso il luogo comune secondo cui le sentenze non si commentano né si giudicano, almeno fino a che non se ne leggono le motivazioni. Ci sono sentenze che gridano vendetta al cospetto di dio fin dal dispositivo. Quella finale che ha chiuso il processo per la strage di piazza Fontana senza nessun colpevole, per esempio. O quella sulla strage ferroviaria di Viareggio. O ancora quella sull’eccidio infinito dell’Eternit di Casale. La sentenza del tribunale di Locri contro Mimmo Lucano e il suo «modello Riace» aveva già fatto inorridire al momento del giudizio (condanne doppie rispetto alle richieste dello stesso Pubblico ministero). Ora, lette le motivazioni (904 pagine), la sensazione di trovarsi di fronte a uno scandalo giudiziario è rafforzata. Non solo un’ingiustizia, ma un capovolgimento kafkiano della realtà: della stessa realtà documentata negli atti processuali ampiamente riprodotti, come se i fatti, nel loro passaggio attraverso il labirinto mentale del giudice, mutassero senso e natura, in una metamorfosi mostruosa che rende i protagonisti irriconoscibili per chiunque li abbia conosciuti, da vicino o da lontano.

Così il grande sogno di fare di questo piccolo borgo semiabbandonato della Locride un luogo dell’accoglienza dei migranti e insieme di recupero del territorio (la trasformazione del migrante da problema in risorsa territoriale: questa l’idea geniale che stava dietro quel «modello») si rovescia, nella rappresentazione giudiziaria, in sordido esempio di«logica predatoria» in cui il denaro pubblico e i progetti ministeriali d’integrazione figurano come meri strumenti «asserviti agli appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica», di un sindaco criminale. Chiunque sia stato anche solo qualche giorno a Riace, e abbia visto quella comunità (ora distrutta) farsi giorno per giorno, e la vita ritornare tra le antiche pietre, sa quanto «pulito» fosse quel progetto.

Evidentemente chi ha in mente solo la sporcizia della vita, vede tutto sotto questa forma. E infatti i soliti giornali della peggior destra si sono riconosciuti immediatamente in quell’aberrazione giudiziaria, facendola propria. Libero, quello che a suo tempo aveva sparato in prima sui migranti che «Dopo la miseria portano malattie» ora titola: «La sentenza che inchioda Lucano e la sinistra». Gli fa eco il Tempo – che i migranti li butterebbe a mare – con «Lucano derubava i migranti». Spiace che al coro truculento si accodi sul Fatto anche Marco Travaglio con un tombale: «Accusati di essere troppo cattivi con Mimmo Lucano, dalle motivazioni della sua condanna scopriamo di essere stati troppo buoni».

Lucano – a differenza di molti difesi da Libero e dal Tempo e fustigati da Travaglio, non si è messo nemmeno un centesimo in tasca. Lo scrive lo stesso giudice che «l’ex sindaco sia stato trovato senza un euro in tasca», anche se subito aggiunge che questo «nulla importa» perché lui sa bene che l’utile, il furbacchione (termine di Travaglio) lucrava comunque, in immagine, successo politico, investimento per la vecchiaia (l’estensore delle motivazioni immagina di entrare nella testa stessa dell’imputato, per leggervi le reali intenzioni, non suffragate da nulla). A ben guardare i crimini di Lucano si ridurrebbero a tre: l’aver trattenuto più a lungo dei 900 giorni permessi un certo numero di migranti (i cosiddetti «lungo permanenti», a cui sono dedicate decine e decine di pagine); l’aver investito alcune somme dei sussidi statali in migliorie del contesto (un frantoio, alcune case-albergo) per attrezzare il territorio ad una adeguata abitabilità; aver speso in concerti e spettacoli al fine di attrarre attenzione e turisti nel borgo.

Le cose che ogni buon sindaco dovrebbe fare, soprattutto in quelle aree interne a rischio di abbandono di cui tanto si parla e per cui tanto poco si fa. Il tutto con un certo numero di forzature e di violazioni amministrative (che sono indubbie, ma che non meritano certo sanzioni riservate neppure ai colpevoli di reati di mafia). Chi lavora in quei contesti sa benissimo che se non si consolida la permanenza nei luoghi, se non si radicano i nuovi abitanti a un tessuto vivo e capace di produrre reddito, le misure di accoglienza sono come acqua sulle pietre. Ma né i giudici di Locri né i virtuosi della penna al veleno lo sanno, e comunque non gli interessa. Conta lo spettacolo crudele della virtù infangata nella terra dei troppi vizi ’ndranghetisti.

E a proposito di vizi, si è accorto Travaglio, leggendo «le carte», del ruolo non certo secondario nella damnatio di Mimmo Lucano, svolto da un certo Michele Di Bari, al tempo prefetto di Reggio Calabria: l’uomo che tenne nel cassetto una relazione dei propri ispettori elogiativa per Riace e che innescò l’azione della Procura contro il suo sindaco? È lo stesso alto funzionario voluto da Matteo Salvini, quando era ministro dell’interno, al Viminale a occuparsi di contrasto ai migranti e costretto di recente alle dimissioni perché la moglie è indagata per una brutta storia di caporalato

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