L’acqua arriva in casa prima con la tina, poi dal rubinetto e ora con le bottiglie di acqua minerale

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Precedentemente alla realizzazione degli acquedotti comunali avvenuta nel corso dell’ ‘800 si doveva attingere l’acqua dai pozzi con le donne incaricate di trasportarla a domicilio. All’inizio tutti dovevano rifornirsi presso le fontane pubbliche, la realizzazione degli impianti idrici domestici allacciati alla rete comunale è cosa successiva (Schema di impianto acquedottistico)

Acquedotti e fognature sono, sicuramente, due infrastrutture urbane essenziali, ma nel passato non dovevano essere considerate entrambe fondamentali. Della fognatura si sarebbe potuto fare a meno, si sentiva meno l’urgenza della salvaguardia dell’integrità ambientale minacciata dagli scarichi domestici (da noi non c’erano industrie) rispetto alla necessità di dissetare la popolazione. Ci stiamo riferendo al cinquantennio successivo all’Unità d’Italia che fu la stagione, lunga, dei lavori pubblici durante il quale si cercò di colmare il deficit di attrezzature che gli Stati pre-unitari, in primis il regno borbonico, non avevano lasciato in eredità.

Si privilegiò la realizzazione delle opere acquedottistiche nei confronti di quelle fognarie e, forse, un pensiero recondito nella mente di tanti amministratori locali che ha spinto verso siffatta scelta deve essere stato che gli acquedotti, in particolare le fontane che ne sono il terminale, sono cose visibili mentre le fogne sono invisibili poiché sotterranee, cioè nascoste alla vista, poco utili per farsi propaganda. Una bella fonte nella piazza del paese è funzionale alla celebrazione del politico che ne ha promosso la costruzione, un’azione in chiave elettoralistica.

Il dato relativo all’intera nazione, riferito alla situazione degli inizi del 1900, è che la metà degli insediamenti possedeva l’impianto acquedottistico, una percentuale assai bassa che si riduce ulteriormente in riguardo alle fognature le quali sono presenti solo in 1/3 dei Comuni italiani. Bisogna aspettare mezzo secolo perché ogni centro abitato della Penisola, Isole incluse, abbia il suo acquedotto, da noi per merito della Cassa per il Mezzogiorno; oltre agli aggregati urbanistici in quegli anni la rete acquedottistica raggiunge pure le borgate e a proposito di ciò un’opportuna annotazione a margine è che anche ce ne fosse stata l’intenzione non sarebbe stato possibile addirittura concepire una di quelle tante lottizzazioni turistiche che popolano ora le campagne nostrane, vedi l’agro di S. Massimo e quello di Vinchiaturo.

L’acqua arriva nell’ambito rurale per soddisfare le esigenze umane e quelle animali; lì dove le bestie si abbeverano in precedenza nei ruscelli o negli abbeveratoi il beveraggio ora è assicurato direttamente nelle stalle. Gli abbeveratoi, visto che ne abbiamo parlato, così come i fontanili non attingono alle falde freatiche, sono strettamente legati alle risorgive, non hanno il dono dell’ubiquità, entro certi limiti s’intende, dei pozzi.

Se è vero che alla metà del XX secolo la totalità dei nuclei abitativi era dotata di acquedotto, è la situazione a livello nazionale, non è detto che in tutte le case arrivasse l’acqua potabile. I costi di allaccio alla rete e quelli dei lavori casalinghi affinché i tubi raggiungessero i rubinetti erano assai elevati, li poteva sostenere unicamente una parte degli abitanti, il censimento del 1951 indica circa il 40%. Perciò la gente ancora nel secondo dopoguerra era costretta ad attingere il prezioso liquido alle fontane cittadine.

Erano le donne che portavano l’acqua dalla fonte sul capo con la caratteristica “tina” poggiata sulla “spara”, qualcosa di simile a un cuscino sottoposto alla tina e sovrapposto alla testa. Come racconta Vincenzo Colledanchise sul sito web dell’associazione Camminamolise questo del trasporto dell’acqua era uno di pochi momenti della giornata in cui alla componente femminile della famiglia era consentito di allontanarsi dalla, appunto, famiglia; la fonte diventava un luogo di incontro e di chiacchiericcio con le altre signore e signorine che attendevano ai medesimo compito, un angolo del borgo di notevole valenza semantica in cui il senso di comunità si rinsalda, uno spazio informale che ha una capacità coesiva superiore alle superfici formalmente deputate all’aggregazione delle persone.

Le professioniste, cioè coloro che riforniscono di acqua le residenze altrui, che lavorano per conto terzi si chiamano “acquaiuole”, un mestiere ormai scomparso anche se non è affatto sparita l’usanza di acquistare acqua da bere da fornitori esterni, sono cambiati esclusivamente i contenitori, oggi non più tine, bensì bottiglie, quelle dell’acqua minerale; sembra che dal rubinetto di casa esca l’acqua per la pulizia di cose e persone senza che venga bevuta.

Si costruiscono, è vero, fontane nei nuovi quartieri residenziali, però non per colmare la sete di chi vive lì, bensì per abbellire l’area, un elemento di arredo urbano; l’esempio calzante è la Fontana dei Fiumi in piazza D’Uva a Isernia nella zona di S. Leucio un recente ampliamento della città. L’acqua minerale si beve non tanto per le sue virtù terapeutiche quanto per la sfiducia, immotivata, relativa alla purezza di quella che “sgorga” nel lavello della cucina.

Qualche preoccupazione fino all’altro ieri era comprensibile la nutrissero i Termolesi che bevevano l’acqua, potabilizzata, dell’invaso del Liscione, cioè fino al completamento dell’Acquedotto Molisano Centrale lungo cui scorre acqua di sorgente, del Biferno nello specifico. Il Centrale è l’ultimo arrivato dei grandi impianti acquedottistici le tubazioni dei quali solcano ormai in lungo e in largo la provincia di Campobasso, andandosi ad aggiungere al Destro e al Sinistro, una triade.

L’acqua viaggia regolarmente per decine e decine di chilometri, prelevata e trasferita anche a elevata distanza, non è più l’era degli acquedotti comunali soppiantati dai grandi schemi acquedottistici realizzati in vigenza dell’Intervento Straordinario nel Mezzogiorno. Il legame tra l’abitato e le fonti idriche presenti in loco continua a permanere nell’ambito provinciale isernino dove la stragrande maggioranza dei Comuni si approvvigiona da scaturigini proprie.

Le amministrazioni comunali qui si oppongono all’adesione al Servizio Idrico Integrato che fa capo alla Regione, gelosi della loro autonomia idropotabile. Se questo atteggiamento di resistenza ad una gestione comune su base regionale delle disponibilità idriche significa anche voler rifiutare il prelievo di acqua dall’acquedotto di proprietà per soddisfare esigenze idriche di altre comunità qualora ne avessero bisogno allora saremmo di fronte ad una manifestazione di campanilismo.

Francesco Manfredi Selvaggi572 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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