Partire è un po’ morire, muore il borgo

di Francesco Manfredi-Selvaggi

L’emigrazione ha avuto varie fasi, da quella diretta verso il continente americano a quella che ha avuto quali mete il nord dell’Europa e dell’Italia fino a quella indirizzata verso i centri maggiori della nostra stessa regione. Quest’ultima più propriamente può definirsi trasferimento, ci si muove non per motivi di lavoro ma per la ricerca di migliori condizioni abitative (Ph. F. Morgillo-Scorcio di borgo molisano)

Si mette, correttamente, in relazione l’abbandono dei borghi con l’emigrazione e va bè, ma bisognerebbe specificare di quale emigrazione si tratta. E sì, di emigrazione non ce n’è una sola. I differenti tipi di emigrazione producono differenti effetti sugli insediamenti abitativi d’origine degli emigrati. Esiste una emigrazione verso il Sud America e l’Australia che è la più antica e che è anche quella diretta verso terre più lontane. L’Argentina meta dell’emigrazione di tantissimi corregionali a cavallo tra ‘800 e ‘900 è stata definita da Papa Bergoglio la fine del mondo.

Ci interessano per il discorso che intendiamo fare queste due caratteristiche salienti: la prima è quella di essersi svolta in un’epoca remota nella quale, per attraversare l’oceano l’unico mezzo di trasporto disponibile erano i “bastimenti”, navi che impiegavano più di un mese in quanto la potenza dei motori allora era limitata, per arrivare a destinazione, la seconda è quella della distanza essendo i Paesi di accoglienza oltreoceano per cui, anche quindi per questa ragione, occorreva oltre un mese di navigazione.

Ciò fa sì che la scelta di emigrare fosse una scelta definitiva, un viaggio di sola andata, senza ritorno con la conseguenza della chiusura per sempre delle abitazioni native. Poiché erano spostamenti compiuti con l’intera famiglia, un’autentica migrazione, il legame con la madrepatria inevitabilmente si andava man mano allentando. I flussi migratori in seguito, fin oltre la metà del XX secolo, si indirizzavano verso la porzione superiore del continente americano, non più quella inferiore e ciò determinò quanto segue: sia per la diminuzione del chilometraggio datosi che l’Europa e l’America del Nord stanno nel medesimo emisfero, seppure ai due lati opposti dell’Atlantico, e sia per il miglioramento dei sistemi di comunicazione, non più le imbarcazioni bensì gli aerei i quali hanno ridotto di molto i tempi della traversata transoceanica, divenne maggiormente realistico il sogno, perché per tantissimi rimase tale, di poter tornare “a casa” all’età, magari, della pensione.

Il riflesso sulle condizioni dei paesi di partenza fu che nei nuclei storici si ebbe l’esecuzione di opere di ammodernamento di diversi stabili e che nella periferia spuntarono nuove casette, interventi entrambi realizzati con le cosiddette rimesse dei cosiddetti americani. Nel secondo dopoguerra i movimenti delle persone in cerca di lavoro divennero a corto raggio, a scala nazionale o continentale, le offerte di impiego provenivano dalle industrie dell’Italia settentrionale e del Paesi nordeuropei. I lavoratori facevano rientro nei centri in cui avevano lasciato i propri nuclei familiari con maggiore frequenza, tanto nelle festività natalizie quanto nelle ferie estive.

Un segno fisico di tale fase della storia dell’emigrazione impresso nella struttura insediativa regionale è costituito dagli alloggi per vacanze acquistati nelle località balneari, prendi Campomarino Lido. È ovvio che quanto esposto fin qui è una semplice ipotesi di lavoro, il tema delle correlazioni tra patrimonio edilizio ed emigrazione si ritiene debba essere approfondito aprendo una apposita linea di ricerca. C’è qualcosa che unifica le tipologie di emigranti descritte, divise fra loro rispetto alla prospettiva del ritornare alla, per così dire, base, se al termine dell’attività lavorativa o se saltuariamente con i segnalati relativi risvolti sulla situazione insediativa del comune di “dipartita”, ed è questa cosa che a nessuno di loro, lontani oppure vicini tanto nel tempo quanto nello spazio, sia mai passato in mente il fatto che il borgo originario possa rischiare di chiudere, che i loro discendenti desiderosi di scoprire le proprie radici possano non trovarlo oppure imbattersi in un mucchio di macerie.

Pertanto, è interesse, non vuol essere un rimprovero in quanto l’emigrare è stata una costrizione, non solo di coloro che continuano ad abitarci ma pure di quanti sono andati via la conservazione degli abitati, per i primi, di residenza, per i secondi, di partenza se non si vuole l’annullamento della stessa memoria del luogo di provenienza della famiglia nelle generazioni future e con essa il ricordo degli antenati correndo così il pericolo di creare individui sradicati. Niente di più niente di meno. La parola emigrazione non va intesa, come una parola risolutrice, la chiave di comprensione del fenomeno dell’abbandono dei nostri paesi, la parola capace di spiegare in modo esaustivo il processo di svuotamento delle realtà insediative minori, specie quelle ubicate nelle aree interne della regione, ma occorre affiancare ad essa per avere una comprensione più ampia di tale preoccupante tendenza la parola trasferimento.

Mentre si emigra essenzialmente per ragioni occupazionali ci si trasferisce altrove, nelle entità urbane di superiore rilievo, prevalentemente per migliorare la qualità della vita. La desertificazione, demografica, dei piccoli centri porta ad una riduzione dei servizi offerti alla popolazione, mettiamo sparisce il barbiere non essendovi un numero di clienti congruo, è nelle cose, è una questione di
economia di scala. Diminuendo i membri della comunità non si riescono a raggiungere le soglie
ottimali per il funzionamento della scuola primaria, dello sportello bancario e così via.

È questo oggigiorno, più che l’occupazione, il motivo per cui coloro che se lo possono permettere, il loro reddito lo consente, spostano la residenza dal paesello alla cittadina attratti dalle opportunità, educative, di fruizione del tempo libero, ecc. di cui godere. Si tratta del ceto medio le cui dimore paesane sono di un certo rilievo, di un qualche pregio e, oltretutto, abbastanza voluminose; allorché esse non sono più abitate esse giocoforza vanno in disuso e ciò determina un effetto di spaesamento, stiamo discutendo di paesi, per chi si trova a frequentare taluno dei tipici borghi molisani. In definitiva la chiusura di palazzi e palazzotti signorili e borghesi
contribuisce non poco ad attribuire a quell’aggregato urbanistico l’immagine di villaggiofantasma,
di ghost-town.

Francesco Manfredi Selvaggi580 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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