Altare come evoluzione della specie dell’ara
di Francesco Manfredi-Selvaggi
Quello di cui si parla è l’altare della chiesa di S. Maria delle Fratte nell’agro di S. Massimo donato dalla famiglia feudale De Gennaro. Si dice che originariamente stava nella chiesa-madre e che ha traslocato qui dopo il terremoto del 1805 che ha distrutto la chiesa parrocchiale così come parte dell’abitato (Ph. F. Morgillo-L’altare della chiesa di S.Maria delle Fratte a S.Massimo)
S. Maria delle Fratte ha un solo altare e del resto ha una sola abside, per una chiesa di campagna è la norma. Esso è costituito da un cassone (cassa, cassetta non vanno bene per definirlo, cassettone forse sì) con 3 facce che avanza da, per rimanere alla similitudine con i mobili domestici, uno stipo anch’esso senza sportelli che sostiene il ciborio, il quale possiede, invece, uno sportellino dove si custodisce l’ostia consacrata. I pannelli che rivestono entrambi sono intarsiati in modo fine, quasi opera di un ebanista, con l’impiego di tasselli marmorei di varie colorazioni a disegnare motivi di fantasia con inserti floreali.
La cassa dell’altare è lateralmente e superiormente rivestita da lastre di marmo bianco mentre frontalmente presenta il mosaico ad intrecci di cui si è detto; il ripiano soprastante, quello in cui è inserito il tabernacolo, è delimitato ai fianchi da due putti ovvero angioletti visto che siamo in una chiesa, una faccia di angelo per faccia dell’elemento di arredo liturgico. Nelle specchiature che risvoltano dal parallelepipedo che abbiamo chiamato cassone troviamo lo stemma della famiglia marchesale, i De Gennaro. Questo è un bassorilievo che completa le tipologie di arte lapicida presente in quest’opera aggiungendosi all’intarsio e alla scultura, il tutto tondo degli angioletti. Il modellamento della pietra avviene in diversi modi.
Pure l’araldica si deve piegare alle esigenze artistiche, è una mera curiosità, per cui i leoni rampanti simbolo del casato sono rappresentati in maniera emisimmetrica, rivolti in senso opposto, nello scudo di sinistra il felino si volge verso sinistra e viceversa quello di destra. All’altare voluto dal feudatario si sovrapporrà, la somma necessaria è offerta da un cittadino sanmassimese, nel 1966 a suo coronamento un manufatto composto da colonnine ai suoi estremi che sostengono una trabeazione insieme alla quale incorniciano la nicchia dove nel periodo estivo è posta la Madonna. È una nicchia in una nicchia nel senso che è ricavata in un incavo della parete fungente da abside, non estroversa all’esterno perché il muro ha il fronte piatto.
È da evidenziare che senza questa aggiunta all’altare dei De Gennaro tale cavità sarebbe rimasta vuota per cui l’apparato donato da Bartolomeo Gioia viene ad essere un suo completamento indispensabile, altrimenti sarebbe stato simile ad un’ara pagana. È opera ben meno preziosa fatta com’è di gesso e stucco, con decorazioni e colori che richiamano quelli del manufatto liturgico realizzato a devozione dei marchesi di S. Massimo, nel tentativo di omogeneizzarsi a questo. La differenza principale sta nella qualità della materia utilizzata, marmo contro gesso, e nella capacità realizzatrice, arte contro artigianato.
La critica appena mossa all’integrazione effettuata ormai quasi 60 anni fa è rivolta agli aspetti materici e alla finezza dei dettagli, basta mettere a confronto le figure angeliche che adornano ambedue i pezzi dell’altare, sarebbe ingiusta se si estendesse alla composizione complessiva di questo arredo sacro poiché l’opera appare ben proporzionata, insomma una fusione tutto sommato riuscita, da lontano l’occhio non distingue la differenza di fattura tra le due parti ed anche è portato a giudicarle organiche fra loro.
Del resto senza questa aggiunta, la quale deve essere stata concepita fin dall’impianto iniziale della chiesa seppure eseguita molto dopo, la concavità rilevata in precedenza sarebbe stata priva di senso; essa ha una forte ragione d’essere in quanto destinata ad accogliere l’altare pluristratificato. Il merito della riuscita dal punto di vista artistico dell’opera, appunto, d’arte è sia della proporzionalità tra i membri che compongono l’altare e sia l’organicità tra lo stesso e la parete la quale si piega nella fascia mediana proprio per dare protezione, in senso figurato, nella rientranza, all’altare.
A dire la verità non è proprio così, per completezza occorre mettere in evidenza ciò che non è in evidenza cioè il retro dell’altare, il quale dunque non è del tutto incassato, e neanche del tutto addossato, nel muro di fondo, ne è fino ad una certa quota distaccato e nell’interstizio che si viene a determinare trova posto una minima sacrestia alla quale si accede oltre che dall’interno dall’esterno mediante una anch’essa minima porta, seppure passante il didietro dell’altare non è un ambulano. Finora si è discusso dell’altare in sé stesso e non in rapporto con la composizione della chiesa, cosa cui rimediamo adesso.
L’altare è in asse con l’ingresso dal quale lo si coglie inquadrato dall’arco che separa il presbiterio dall’aula; se non ci fosse stato quel muro che divide i due ambienti interrompendosi nel mezzo per mezzo del predetto arco la visione dell’altare non sarebbe stata così decisa, il punto di convergenza della prospettiva. L’altare lo si sarebbe visto non come un vero e proprio focus prospettico, bensì sullo sfondo di una parete vuota, il che lo avrebbe immiserito, sarebbe apparso con un’immagine letteraria, un individuo sperduto in un luogo privo di altre presenze umane, in qualche modo decontestualizzato. Infine alcune, poche, considerazioni “sparse” che ci erano sfuggite.
Le due sezioni dell’apparato liturgico, quella inferiore di età antica e quella superiore di epoca moderna, sono tenute insieme dal raddoppio del ripiano in cui sta il tabernacolo, il quale funge da mensola che sorregge, vi è un lieve distacco, l’edicola dove viene inserita nel suo soggiorno agreste, in estate, la statua della Madonna. Un’edicola che richiama un tempietto ellenistico per la sua conformazione a C. Il raccordo, tale raddoppio del ripiano, è ben studiato perché si accorda con la “gradonatura” della struttura dell’altare preesistente proseguendo man mano che si sale di livello l’allungamento in senso trasversale dei gradoni mentre in senso longitudinale le terminazioni sono delle volute simili a quelle che circoscrivono la porzione basamentale.
Francesco Manfredi Selvaggi641 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
0 Comments