La battaglia contro gli haters della rete può arrivare dell’educazione e dalla formazione

Inneggiano all’odio, spesso in modo subliminale, avvalendosi di fake news o frasi ad effetto, altre volte in modo diretto. Il loro spazio d’azione è rappresentato dai social network, i blog e le chat dove, attraverso il meccanismo del troll, inondano la rete d’insulti, frasi razziste, violenza verbale. Gli haters pullulano in Italia come all’estero. Nascosti dietro un’identità fittizia o orgogliosi di mostrare e diffondere nome e cognome, sono gli abitanti di uno spazio che si configura sempre di più come un’agorà virtuale difficile da frequentare, dove si ripropongono, in modo cruento, le dinamiche del litigio face to face, che su Internet sfocia in numerose forme di linguaggio di odio, fino ad arrivare alla configurazione di veri e propri reati come lo stalking.

Una violenza più estesa e più intensa, che trae forza dal fatto che l’interlocutore non è presente fisicamente e quindi l’hate speech si rafforza anche dell’assenza dei feedback espressi attraverso la mimica facciale. Il tratto distintivo degli haters è la violenza. L’hate speech è un linguaggio che ha caratteristiche precise, che usa termini offensivi netti, senza lasciare spazio a diverse interpretazioni. Secondo una ricerca condotta dall’Università La Sapienza di Roma e da Vox (Osservatorio italiano sui diritti), il principale bersaglio dell’odio via web sono le donne, vittime del 63% dei tweet negativi analizzati, seguite dagli omosessuali, 10,8%, dai migranti, 10%, e poi dai diversamente abili (6,4%). Una delle caratteristiche del linguaggio degli haters, infatti, è quello di colpire le categorie sociali più deboli, spesso messe ai margini della società. Perché quando l’odio è indirizzato nei confronti di chi è più debole, di chi non ha la possibilità di difendersi, è evidente che ferisce di più. E gli haters hanno come obiettivo proprio questo: estendere la loro rete e diffondere l’odio ovunque, senza limiti.

Fin dove si può spingere questo odio? I limiti sono difficilmente delineabili e a maggior ragione è quantomeno complicato cercare di circoscrivere questo fenomeno oggi. Anche perché sembra contestualmente elevarsi anche il livello di tolleranza. L’analisi di quanto avviene quotidianamente sui social mette in luce delle caratteristiche che appaiono codificate, adottate e riproposte, in modo quasi simile, nei post e nei tweet. Questo fenomeno non risparmia neppure ambiti e figure istituzionali e chiama in causa, quindi, anche la politica. È un aspetto desolante, che tuttavia merita attenzione perché la politica dovrebbe evitare di rimanere fagocitata in un meccanismo che si autoalimenta a colpi di tweet e non risparmia nessuno, come dimostrano gli attacchi recenti al presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, preso di mira da una serie infinita di tweet e post su Facebook arrivati addirittura a esplicitare minacce. E una parte consistente di questo odio non è arrivato da utenti “comuni”, ma da rappresentanti politici, da uomini delle istituzioni.

Il fenomeno degli haters ha invaso ogni spazio della vita, pubblica e privata, reale. Chiedersi come ritornare indietro è più che lecito o, qualora non fosse possibile, è necessario domandarsi che fare per frenare un trend che rischia non solo di annullare il senso ultimo della politica, ma addirittura di dare vita a un processo di autolegittimazione della violenza senza argini. L’interrogativo che si pone riguarda infine le azioni di intervento dei provider tecnologici e l’ambito legislativo. Qual è il confine tra l’esigenza di controllo dei toni online di hate speach e il diritto di manifestare liberamente la propria opinione? Tra la censura e la difesa della dignità? La risposta sta ancora una volta nella educazione e nella formazione a non alzare il livello di assuefazione e tolleranza dell’hate speech in rete, contrastandolo con un investimento massiccio sulla cultura digitale che garantisca la dignità a tutte le persone.

Fonte Huffington Post

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