A margine della giornata mondiale della salute

di Umberto Berardo

Il 7 aprile si è celebrata la giornata mondiale della salute.
Molte le manifestazioni con le quali si è chiesta la garanzia di una copertura sanitaria per tutti giacché la salute è un diritto universale.

Oggi tale protezione manca alla metà della popolazione mondiale. È per questo che ancora una volta si sono rivendicati livelli essenziali di assistenza per i cittadini su qualsiasi territorio essi vivano. In Italia tale richiesta ha come muro di gomma il Decreto Balduzzi che parametra talune prestazioni in relazione ai bacini di utenza ed al numero di abitanti presenti su un determinato territorio, ma più ancora è ostacolata da una politica che, a livello nazionale e locale, è ormai chiaramente orientata alla privatizzazione del sistema sanitario come dimostrano molti piani  regionali che stanno deprivando di specializzazioni operative le strutture pubbliche per affidarle a quelle private. Banalmente ci chiediamo come mai uno Stato secondo il Decreto Balduzzi non può assicurare certe prestazioni nel pubblico per scarso numero di abitanti in un territorio, ma poi paga le stesse in convenzione ai privati. Il problema prioritario è quello di assicurare alla popolazione, ovunque essa viva, che le condizioni alimentari, territoriali ed ambientali non mettano in pericolo la qualità della vita e la salute.

Rispetto all’insorgenza delle malattie poi occorre avere un quadro epidemiologico chiaro e dettagliato da aggiornare con sistematicità, predisporre strutture diagnostiche e di cura sul piano territoriale e nei DEA di primo e secondo livello cui poter accedere con tranquillità e celerità garantendo che l’eccellenza di cui tanto si parla non appartenga solo a taluni presidi, ma diventi la norma per tutto il sistema sanitario pubblico che solo, fuori da logiche di profitto, può e deve garantire pari opportunità di accesso alle prestazioni per tutti. Tali considerazioni non negano al privato la possibilità di essere presente al riguardo con iniziative che possano affiancarsi al pubblico, ma dalle logiche della cosiddetta complementarietà o integrazione lo Stato e le Regioni devono progressivamente liberarsi garantendo proprie forme di assistenza di qualità in tutte le specializzazioni e su tutti i territori. Questo significa che il privato dovrà, almeno progressivamente, autofinanziarsi quando lo Stato si deciderà ad investire nelle strutture pubbliche i fondi che oggi impegna per i posti letto ed i servizi assegnati alle tante strutture private. Chi accetta tale linea non può pensare a deroghe al decreto Balduzzi, ma alla completa revisione dello stesso come all’eliminazione di quei servizi privati nel pubblico che si chiamano intramoenia ed alla soppressione dei superticket. Sappiamo bene che tali proposte hanno bisogno di coperture finanziarie che sicuramente possono essere trovate se si ha voglia di mettere mano ai tanti privilegi abnormi di cui godono diverse categorie sociali.

Senza tali cambiamenti di passo chi parla genericamente di volere una sanità pubblica può essere apprezzabile sul piano puramente formale, ma rischia di non essere affatto credibile se non delinea percorsi di cambiamento praticabili e finalizzati all’ottimizzazione di coperture nelle tecnologie, nei farmaci e nell’erogazione di servizi sanitari ben territorializzati e funzionali alle reali esigenze dell’utenza. Abbiamo operato per due anni nel Forum per la difesa della sanità pubblica e di promesse, di interpellanze parlamentari rispetto ai problemi relativi al ridimensionamento dei servizi diagnostici come delle cure ne abbiamo sentito parlare a iosa da parte di talune forze politiche. Nulla si è mosso a livello istituzionale. È per questo che siamo stanchi di promesse e proclami. Abbiamo scritto più volte che il futuro della sanità si gioca su fronti diversi che sono quelli di proposte concrete ed organiche che in diverse circostanze abbiamo avanzato in questi ultimi anni, ma anche sui paradigmi di lotte pacifiche, ma dure per ottenere che chi legifera o amministra sia in grado di confrontarsi con tali progetti e mettere in atto un sistema sanitario pubblico degno di questo nome. La situazione in cui versano i cittadini rispetto alla tutela della salute presenta problemi molto gravi. I movimenti che se ne occupano non possono, come purtroppo sta avvenendo, verticalizzarsi chiudendosi al confronto con la base.

La riflessione, l’analisi e l’elaborazione delle idee può anche partire come proposta da coordinamenti, ma è necessario soprattutto nella sensibilizzazione, nel processo educativo, nel ragionamento e nella ricerca delle strategie operative di lotta e di proposta tenere il filo assembleare che francamente era molto presente fino a qualche tempo fa e che oggi si è ridotto a pura formalità mancando a questo livello ogni potere decisionale. I partiti, i sindacati, le stesse chiese locali, ma anche i movimenti non possono guardare a quanto accade sul piano sanitario limitandosi, nel migliore dei casi, a ricorsi giuridici, a chiedere deroghe, a proporre incontri accademici o ad organizzare sit in. Sono necessarie al contrario posizioni politiche con progetti di legge alternativi all’esistente, ma occorre anche coscientizzare tutti sulla necessità di azioni forti quali ad esempio possono essere quelle di uno sciopero generale o di contrasto deciso a provvedimenti che penalizzano sul piano sanitario le fasce deboli della società. Quando abbiamo fatto proposte in merito siamo stati accusati di essere provocatori. Ebbene, sì. Se serve a promuovere e difendere diritti fondamentali come quello alla salute, noi vogliamo essere provocatori non solo sul piano dell’elaborazione di idee, ma anche nell’indicazione di attività operative di lotta da approfondire nei dettagli e da mettere in campo.

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