Femminicidi, perché l’ultima vittima non è mai l’ultima?

di Miriam Iacovantuono

“Sai mamma oggi penso e sogno ad occhi aperti…vorrei un mondo fatto di amore, di baci e abbracci, quelli veri, però! Vorrei essere felice, accarezzata da mani tenere e calde e non conoscere la paura. Sai mamma ho sognato che potesse accadere, ma ho paura che rimarrà solo un sogno”.

All’indomani del 25 novembre, in cui abbiamo celebrato la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, e ognuno ha sentito il dovere di ribadire il proprio No alla violenza di genere, dietro la porta di una camera, abbracciata alla sua mamma con il volto rigato da lacrime e gli occhi contornati da lividi, c’è una figlia che sogna un futuro diverso. E invece domani è come ieri.

Scarpe rosse, panchine contro la violenza, minuti di silenzio, fiaccolate e nastri rossi. Ancora manifestazioni per l’ennesima vittima che non è mai l’ultima. Tanti, troppi racconti. Tanti, troppi proclami, ma tutto questo non basta, non funziona, o meglio non funziona abbastanza perché dietro quella porta c’è l’ennesimo uomo violento, c’è l’ennesimo assassino che non è mai l’ultimo.

E così continuiamo a interrogarci, a chiederci il perché. Una risposta che forse va trovata nel fallimento della società in cui viviamo. Le donne continuano ad avere paura, a stringere forte le chiavi di casa camminando da sole nella notte. Continuano ad avere paura di quella mano che si alza perché non sarà una carezza e perché l’amore violento, il mostro, l’uomo irascibile assalito da un raptus sono come un’ombra.

Allo stesso tempo, però continuiamo a sentire messaggi spot in cui viene detto a una donna cosa fare se subisce violenza, i numeri da chiamare e i segnali da lanciare. Ma se questa società non avesse fallito, nessuna donna dovrebbe comporre quei numeri o lanciare dei segnali. Se questa società non avesse fallito il vicino di casa sarebbe più attento alle urla che si sentono dietro la porta. Se questa società non avesse fallito nessuna donna dovrebbe avere paura di andare all’ultimo appuntamento per lasciare quell’uomo che non ama o dire “No, basta non mi va più!”; non dovrebbe avere paura di indossare quel vestito scollato e quel rossetto troppo rosso. Se questa società non avesse fallito nessuna figlia e nessun figlio dovrebbero abbracciare la propria mamma con il viso rigato dalle lacrime e il volto tumefatto. Nessuna dovrebbe avere paura di sentirsi libera, autonoma e indipendente.

Tanto è stato detto di Giulia, di Romina, di Martina, di Floriana, di Mariella, di Concetta, di Annalisa e delle altre che sono state assassinate. Quante manifestazioni. Quante fiaccolate e messaggi di cordoglio per le famiglie. 107 donne sono state uccise solo nel 2023. Oltre 600 negli ultimi quattro anni. Un massacro. Ma l’ultima vittima non è mai l’ultima e allora impariamo a dire No per far accettare i No. Impariamo ad amare per insegnare ad amare. Impariamo ad ascoltare per insegnare ad ascoltare. Impariamo a guardare chi è al nostro fianco come guardiamo noi stessi, per insegnarlo a chi ci cammina accanto. Impariamo a essere autonome e insegniamolo a chi ci stringe la mano ogni giorno. Impariamo a usare un linguaggio gentile e rispettoso dell’altro e dell’altra dai banchi delle istituzioni, fino a chi ci sta seduto accanto su una panchina in un parco e insegniamolo a chi incontriamo sul nostro cammino. Imparare e insegnare per superare il fallimento di una società che nel 2023, a quasi 80 anni di distanza da quella società che racconta Paola Cortellesi nel suo film “C’è ancora domani”, non è riuscita a rendere sacrosanta la libertà della donna che ogni giorno deve dimostrare di avere coraggio, deve fare i conti con la paura e che ogni istante può essere la protagonista di un episodio violento o l’ennesima vittima di femminicidio.

E se nel secondo dopoguerra le donne della Resistenza che descrive Benedetta Tobagi nel suo libro “La Resistenza delle donne” hanno fatto la storia con il loro coraggio nonostante le sevizie, gli stupri e le torture, c’è voluto ancora troppo tempo per arrivare a riconoscere  il reato di stupro che prima del 1996 era definito delitto contro la moralità pubblica e il buon costume, e non come un reato contro la persona. Ma tanto altro deve essere fatto affinché la società si possa riscattare di quel fallimento che si è portata dietro per troppo tempo. Allora oltre a imparare e insegnare dimostriamo e trasmettiamo l’affetto e l’amore, il coraggio e la libertà, l’uguaglianza e il rispetto, siamo specchio per chi ci sta accanto.

E passato il 25 novembre scriviamo insieme un altro futuro, costruiamo una nuova società ogni giorno, ogni istante, perché ancora oggi Delia continua a essere picchiata da Ivano e ancora tanti, troppi Ivano tirano ceffoni e stringono colli fino a uccidere dietro a porte e finestre che non riescono a proteggere tante, troppe Delia che non ce la fanno a trovare il coraggio di cantare a bocca chiusa.

Ma deve esserci un domani che non deve essere come ieri. Un domani diverso che dobbiamo costruire insieme dietro quelle porte e quelle finestre, nei vicoli dei paesi, lungo le strade delle grandi città, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni, al cinema o nelle biblioteche.

Scriviamolo ancora nei libri, sui giornali, insegniamolo con le canzoni, raccontiamolo alla radio, urliamolo e diciamolo con il silenzio, non solo il 25 novembre, ma ogni giorno, altrimenti l’ultima vittima non sarà mai l’ultima.

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