Non siamo il prodotto; noi siamo la carcassa

illustrazione editoriale numero febbraio-marzo 2020

editoriale del numero di Febbraio-Marzo 2020

Dice così Shoshana Zuboff nel suo ultimo libro dedicato alla mutazione che ha subito il capitalismo nel ventunesimo secolo.
Se in quello precedente la contraddizione fondamentale della dinamica sociale opponeva il capitale al lavoro salariato, questo pernicioso cominciato da un ventennio appena, oppone un sistema planetario di controllo che la Zuboff chiama “il Grande Altro” alla libertà degli individui.
“Privacy is over” annunciò Mark Zuckerberg mentre presentava Facebook al mondo, dichiarando subdolamente a quanti avessero un “profilo” sulla sua piattaforma che quella “profilazione” sarebbe andata assai oltre la loro volontà e capacità di controllo.

La rete dei devices connessi a internet (computer, cellulari, carte di credito, sistemi di localizzazione e di sicurezza…) contiene una serie sterminata di informazioni (big data) sulla nostra vita, che consente a chi la gestisce di analizzare dettagliatamente i nostri comportamenti, di comprendere quali sono le nostre aspettative e addirittura di anticiparle.
Il gioco è quello di proporci con sapiente reiterazione qualcosa ideata e tarata sull’analisi del nostro “surplus comportamentale” osservato minuziosamente, come se quella cosa l’avessimo scelta noi in maniera deliberata.

Gli affari del capitalismo della sorveglianza s’imbastiscono sul possesso e sull’amministrazione delle informazioni che ci riguardano; anche quelle apparentemente insignificanti.
La Zuboff paragona questa strategia a quella adottata dai commercianti d’avorio che cacciano gli elefanti solo per le loro zanne e che, una volta venutine in possesso, abbandonano la carcassa dell’animale.
Anche noi, come gli elefanti, non siamo l’obiettivo del ciclo produttivo; siamo la carcassa dalla quale estrarre i dati; meglio se “sensibili”.
Questa strategia s’insinua in ogni interstizio della nostra vita e mano a mano, col nostro consenso stolidamente interattivo, modifica l’orizzonte della democrazia, così come finora l’abbiamo conosciuta.

Cambridge Analytica, una società di consulenza britannica fondata da Steve Bennon, spin doctor di Trump e punto di riferimento internazionale della destra sovranista (compresi Salvini e la Meloni), ha dovuto dichiarare bancarotta e chiudere, travolta dalle inchieste (fra le altre quelle di Carole Cadwalladr su the Guardian) che hanno appurato la manipolazione del voto, nel 2016, in due circostanze di rilievo: le elezioni presidenziali americane che contro ogni previsione hanno portato alla Casa Bianca Donald Trump e il referendum inglese sulla Brexit, che con la vittoria del “leave” ha avviato l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.
La società aveva comprato da Facebook i dati personali di circa 87 milioni di account di cittadini selezionati fra quelli con l’orientamento politico più indeciso e li aveva usati per indirizzarne il voto con una manovra subdola e omeopatica.

Alexander Nix, amministratore delegato di Cambdridge Analytica, ha rigettato tutte le accuse e si è dichiarato estraneo alle attività illegali attiribuitegli; ma sono stati diversi gli ex dipendenti che hanno collaborato con le autorità per accertare le responsabilità della società; primi tra tutti Christopher Whylie, il programmatore che aveva progettato e realizzato il software utilizzato e Brittany Kaiser, business director di Cambridge Analytica, che con il suo libro La dittatura dei dati (HarperCollins) ha contribuito a far conoscere al mondo come i social network vengono usati per manipolare e aggirare le regole democratiche.

È inquietante e sintomatico nello stesso tempo (lo ha denunciato di recente anche la trasmissione Presa Diretta in un’inchiesta intitolata “Tutti spiati?”) che i colossi padroni della rete (Facebook e Google innanzitutto) possano continuare ad agire indisturbati e che la politica non stabilisca regole e controlli che ci difendano dalla pervasione sempre più intrusiva del “Grande Altro”, al confronto del quale il Grande Fratello di orwelliana memoria sembra un dilettante sbaragliato da tempo.

Antonio Ruggieri75 Posts

Nato a Ferrazzano (CB) nel 1954. E’ giornalista professionista. Ha collaborato con la rete RAI del Molise. Ha coordinato la riedizione di “Viaggio in Molise” di Francesco Jovine, firmando la post—fazione dell’opera. Ha organizzato e diretto D.I.N.A. (digital is not analog), un festival internazionale dell’attivismo informatico che ha coinvolto le esperienze più interessanti dell’attivismo informatico internazionale (2002). Nel 2004, ha ideato e diretto un progetto che ha portato alla realizzazione della prima “radio on line” d’istituto; il progetto si è aggiudicato il primo premio del prestigioso concorso “centoscuole” indetto dalla Fondazione San Paolo di Torino. Ha ideato e diretto quattro edizioni dello SMOC (salone molisano della comunicazione), dal 2007 al 2011. Dal 2005 al 2009 ha diretto il quotidiano telematico Megachip.info fondato da Giulietto Chiesa. E’ stato Direttore responsabile di Cometa, trimestrale di critica della comunicazione (2009—2010). E’ Direttore responsabile del mensile culturale “il Bene Comune”, senza soluzione di continuità, dall’esordio della rivista (ottobre 2001) fino ad oggi. BIBLIOGRAFIA Il Male rosa, libro d’arte in serigrafia, (1980); Cafoni e galantuomini nel Molise fra brigantaggio e questione meridionale, edizioni Il Rinoceronte (1984); Molise contro Molise, Nocera editore (1997); I giovani e il capardozio, Nocera editore (2001).

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