Quale destino per i monumenti legati al colonialismo? Un ricordo inclusivo

di Ketty Iannantuono

Cosa fare dei monumenti scomodi che abbiamo ricevuto in eredità dal passato? Cancellare la memoria non è la strada: quello che serve, specialmente in un paese selettivamente smemorato come il nostro, occorre guardare a esempi di rideterminazione degli spazi della memoria.

Nel 1936, Robert Musil affermava: “non c’è niente in questo mondo invisibile come un monumento”. Ed infatti, solitamente la folla di statue che popola le nostre piazze passa piuttosto inosservata. Negli ultimi giorni, però, social media, televisioni e giornali di tutto il mondo stanno trasmettendo moltissime immagini di statue imbrattate di vernice, coperte di graffiti o tirate giù dai loro piedistalli durante le proteste a sostegno del movimento anti-razzista Black Lives Matter. Dalla statua di Cristoforo Colombo a Saint Paul, Minnesota, a quella di Winston Churchill davanti a Westminster, a quella di Edward Colston a Bristol, a quella di Vittorio Emanuele II a Torino, a quella di Indro Montanelli ai giardini di via Palestro a Milano. Il fenomeno, all’estero quanto in Italia, è stato da molti interpretato quale inopportuno tentativo di riscrittura della storia. Emmanuel Macron, ad esempio, ha dichiarato che in Francia “non cancelleremo la nostra storia e non rimuoveremo alcuna statua”.

Leggere il fenomeno in chiave meramente iconoclastica, a mio parere, è riduttivo e probabilmente controproducente. Le disturbanti immagini di violenza contro queste statue, infatti, rispondono ad un desiderio di inclusione e maggiore giustizia sociale, non nuovo ma pressoché inascoltato, e perciò ora dilagante.

Nel caso di Bristol, ad esempio, alcuni manifestanti, mal sopportando di avere in città un monumento dedicato ad un attivissimo mercante di schiavi, hanno tirato giù la statua di Edward Colston. Uno dei manifestanti, con un potente e indovinato gesto, ha abbassato il ginocchio sul collo bronzeo, riproducendo simbolicamente il brutale omicidio di George Floyd a Minneapolis. La statua è stata poi gettata nelle acque del porto. L’involontario “tuffo” della statua nelle acque del porto ha generato una vasta ondata di reazioni. Priti Patel, segretario di Stato per gli Affari Interni del Regno Unito, intervistata dalla BBC, ha definito l’azione dei manifestanti come “inaccettabile” e “assolutamente vergognosa”.

Personalmente, concordo invece con chi ha riconosciuto l’azione quale potente atto politico. L’importante International Slavery Museum di Liverpool, ad esempio, ha commentato come l’accaduto non fosse un tentativo di cancellare la storia, quanto di fare la storia. David Olusoga (Università di Manchester), ha dichiarato: “Le statue non sono strumenti attraverso i quali comprendere la storia. […] Le statue riguardano l’adorazione. Ci dicono ‘quest’uomo fu un grande uomo, il quale fece grandi cose’. Non è vero. [Colston] era un mercante di schiavi e un assassino”. Nicholas Draper, direttore del Centre for the Study of the Legacies of British Slave-ownership, ha commentato: “Ci saranno altri casi. […] Il mondo della cultura si è interrogato relativamente poco sul momento post-coloniale, e questa è una posizione che non si può più mantenere”. Andando al di là dei toni istituzionali, O’Shea Jackson, meglio conosciuto come Ice Cube, famoso rapper americano (N.W.A.: ‘Niggaz Wit Attitudes’), ha twittato ai suoi 5,2 milioni di follower: «THEY WILL ALL FALL». Una sintesi efficacissima.

Sarebbe curioso chiedersi chi faccia parte o meno di questi «they». Anche Colombo? Anche Churchill? E Montanelli? E Vittorio Emanuele II? E allora, la regina Vittoria? Ma, al di là di questo, mi chiedo se sia davvero legittimo (anzi, forse necessario!) buttare giù una statua ogni volta che il giudizio storico sul personaggio rappresentato cambia. E cosa fare del vuoto che eventualmente ne resta?

Da storica, mi viene spontaneo guardare a come il problema è stato affrontato in passato. Il mondo greco-romano era affollato di statue quanto e più del nostro. Spesso doveva gestire statue di personaggi i quali smettevano di essere considerati degni di tale onore. Si poteva a quel punto ricorrere alla damnatio memoriae, letteralmente la “condanna della memoria” del personaggio in questione, messa in atto attraverso una serie di procedure contro i monumenti pubblici imbevuti della sua memoria. Si andava dallo scalpellare il nome dalle iscrizioni, all’abrasione degli affreschi nei quali la persona era rappresentato, fino al danneggiamento e/o alla rimozione dalla pubblica piazza delle sculture che lo raffiguravano. Negli ultimi vent’anni, storici e archeologi hanno sottolineato come il fenomeno rispondesse a un’esigenza creatrice piuttosto che meramente distruttrice. Iscrizioni monche e statue danneggiate venivano spesso lasciate alla vista del pubblico. La conservazione di taluni elementi della fisionomia e/o della titolatura, come le vittorie conseguite o le cariche ricoperte in vita, assicuravano una mantenuta riconoscibilità del personaggio una volta onorato, e ora colpito dalla condanna.

Quando i monumenti venivano fisicamente rimossi, la loro assenza si faceva notare. Caroline Vout (Università di Cambridge) le ha elegantemente definite “assenze rumorose”. Ad esempio, dopo l’assassinio dell’imperatore Domiziano nel 96 d.C. e la sua damnatio memoriae da parte del Senato, la grande statua equestre che lo raffigurava a cavallo venne rimossa dal Foro Romano. Secondo la ricostruzione di Cairoli Fulvio Giuliani (La Sapienza, Roma), la base della statua, invece, restò al suo posto, immutata e vuota, fino al regno di Settimio Severo (193 – 211 d.C.). Per un centinaio di anni, una grande base in pietra troneggiò, vuota, nel cuore di Roma. Difficile pensare che questo vuoto servisse a cancellare la memoria di Domiziano. Quella creata, e monumentalizzata “per sottrazione”, era invece una nuova memoria, che diceva: “un tempo quest’uomo fu da taluni considerato un grande uomo. Poi, si decise che questo non era vero”. Un pubblico attento veniva forzato a chiedersi chi fosse stato Domiziano e quali azioni potevano aver portato prima all’erezione della sua statua e poi alla sua rimozione. Quella suggerita era una rilettura storica del personaggio, imposta, nel caso specifico, dai suoi stessi detrattori.

Il caso della statua di Bristol rivela l’attivazione di un processo parzialmente analogo, ma più complesso. Come nel caso di Domiziano, la rimozione della statua, con il suo forte rimbalzo mediatico, non tende a cancellare una memoria. Certamente, ha invece contribuito a rendere universalmente nota la storia di Colston, non tanto come filantropo, ma quale mercante di schiavi. Un tentativo si era già fatto nel 2018, quando, in occasione della giornata europea contro la tratta degli esseri umani, un’istallazione artistica era comparsa ai piedi della statua: cento figure umane ammassate come merce all’interno della sagoma di una nave.

L’opera, suggestivamente chiamata Here and Now, inchiodava Colston e la sua Bristol al loro scomodo passato, allo stesso tempo suggerendo una riflessione circa la schiavitù come problema del presente. Il bordo della sagoma della nave in cemento, infatti, riportava incise le professioni oggi a maggior rischio di sfruttamento: “domestic servant”, “car wash attendant”, “nail bar worker”, “kitchen worker”, “farm worker”, “sex worker”, “fruit picker”, ecc. L’istallazione era poi stata rimossa, e la statua era tornata ad essere priva di contestualizzazione, segno di una memoria ambigua.

Ora, all’indomani del tuffo del bronzeo concittadino, il sindacodi Bristol, ha esortato a fare dell’atto di protesta “un’eredità per il futuro della città contro il razzismo e la disuguaglianza”. Il sindaco ha inoltre dichiarato di voler aprire un dialogo con tutta la comunità cittadina per decidere cosa fare del luogo dove si ergeva la statua, la quale dovrà essere recuperata, restaurata e musealizzata.Come primo passo, storici e professionisti di ambito accademico sono stati chiamati a raccolta allo scopo di produrre una solida base informativa sulla quale fondare tale dialogo. Muovendosi con ben diversa agilità e da profondo interprete degli spazi pubblici, Banksy ha proposto di ricollocare la statua nella sua posizione originaria, ma aggiungendo la raffigurazione dei manifestanti del #BLM nell’atto di tirarla giù. Se realizzata, l’opera sarebbe sicuramente di grande impatto, andando a costituire un lieu de mémoire della città più inclusivo.

Commentando la faccenda, Saviano ha chiarito come il timore di un supposto attacco al patrimonio-storico artistico sia del tutto ingiustificato: “[…] Spesso l’interesse storico di un edificio o di una statua è sufficiente per far perdere il valore simbolico intrinseco lasciando solo il valore di testimonianza e studio. Nessuno abbatterebbe il Colosseo pur sapendo che nella sua arena si uccidevano persone per divertimento. Nel caso della statua di Colston credo sia stato invece un gesto possibile e politicamente forte, era una statuaccia del 1895 ed era insopportabile trovare omaggiato con il bronzo un mercante d’esseri umani”. Nessuno sta tentando di cancellare la storia, né tantomeno l’arte!

D’altro canto, la posizione di Saviano presuppone l’esistenza di un interesse storico come criterio discriminante per la conservazione di un monumento. Come giustamente fatto notare da Federico Giannini, la valutazione di questo interesse è inevitabilmente soggetta ad un certo grado di soggettività e, inoltre, varia nel tempo. Tale valutazione può sembrare ovvia nel caso di una “statuaccia” inglese di fine Ottocento (peraltro monumento sottoposto a vincolo d’interesse culturale nel Regno Unito). Se la statua da valutare si trova a Milano, la questione sembra invece rivelarsi in tutta la sua complessità.

Giovedì 11 giugno, attraverso un comunicato indirizzato al sindaco Giuseppe Sala e al Consiglio comunale, l’associazione “I Sentinelli di Milano” ha chiesto la rimozione dai giardini della statua di Montanelli. Il dibattito, in corso da anni, si concentra sul “matrimonio”, contratto da Montanelli con una bambina eritrea di dodici anni durante l’aggressione del regime fascista all’Etiopia. Il giornalista, in effetti, non rinnegò mai il suo coinvolgimento nella vicenda, e anzi vi indugiò ripetutamente e dettagliatamente.

Memorabile lo scambio tra Montanelli e Elvira Banotti. Era il 1969, e davanti alle telecamere del programma L’ora della verità di Gianni Bisiach, Indro Montanelli raccontava con candido entusiasmo l’esperienza giovanile di soldato in Abissinia. Una giovanissima Elvira Banotti, una vita di attivismo ancora tutta davanti chiese allora: “in Europa si direbbe che lei ha violentato una bambina di dodici anni, quali differenze crede che esistano di tipo biologico o psicologico in una bambina africana?”. Montanelli se la cavò con: “in Abissinia funziona così”.

Alla proposta dei “Sentinelli”, politici di diversi schieramenti hanno reagito con sdegno, lamentando “tentativi di moralizzazione della storia e della memoria”. Prevedibili e sconfortanti i titoli di alcuni giornali di destra, improvvisi paladini della libertà. In tutta risposta, il 13 giugno la statua è stata imbrattata con quattro barattoli di vernice rossa e graffiti in nero che coprono l’originale definizione di “giornalista” con quelle di “razzista” e “stupratore”.

Ma se l’idea proposta di rimuovere la statua non sembra accettabile (né tantomeno lo sembra quella di mantenere esposta una statua vandalizzata e coperta di insulti), un colpo di spugna non risolverà il dibattito.

Come più volte denunciato dalla scrittrice e attivista italiana di origine somala Igiaba Scego, i monumenti legati al colonialismo in Italia, sono stati troppo spesso lasciati all’incuria e quasi mai adeguatamente contestualizzati. Quando eliminati dal paesaggio urbano, invece, tali monumenti sono stati semplicemente dimenticati. Emblematico il caso di piazza di Porta Capena a Roma dove si ergeva la stele di Axum, bottino del colonialismo fascista. Dopo decenni di dibattito, la stele è stata restituita all’Etiopia. Il vuoto, in questo caso, è stato colmato da una memoria diversa: un monumento in ricordo degli attentati dell’11 settembre 2001. La memoria delle “imprese” coloniali in Etiopia non è stata arricchita o riscritta, ma semplicemente dimenticata.

In un paese selettivamente smemorato come il nostro, guardare a degli esempi costruttivi di rideterminazione sematica degli spazi della memoria, come quello che pare si stia avviando a Bristol, potrebbe essere un’occasione da non perdere.

Lunedì mattina, evocata da un’ispirata proposta di Igiaba Scego, un’immagine di Fatima-Destà è effettivamente comparsa su un muro di via Torino a Milano. L’opera dello street artist Ozmo raffigura una bambina Eritrea dei giorni nostri, all’incirca della stessa età di Fatima-Destà. Come spiegato dall’artista: “vediamo solamente gli occhi, che ci guardano in modo ambiguo, chi ci vedrà un sorriso, chi una smorfia di dolore”. Here and now.

Fintantoché non restino invisibili e dimenticati, i monumenti possono essere utilizzati come spazi creativi per immaginare una società più inclusiva. Le soluzioni proposte dal mondo della street art dimostrano come questo sia possibile.

Non bisognerebbe dimenticare i monumenti legati in un modo o nell’altro al colonialismo. Potrebbero spingerci a ricordare che per molti lo sfruttamento, anche sessuale e anche dei bambini, che si è consumato durante il colonialismo italiano era e resta accettabile perché “funzionava così”. Ricordare il passato colonialista del nostro paese sarebbe un atto di onestà intellettuale. Lo stesso Montanelli di sicuro apprezzerebbe.

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