La teoria del non sapere e quella del non amare

In foto, Guido Gozzano

In libreria, a cura di Alessandro Fo , “I colloqui e altre poesie” di Guido Gozzano

Nel libro di Vito Mancuso, “I quattro maestri”, uscito da pochi giorni, si afferma che il professarsi ignorante, da parte Socrate, “era anzitutto un metodo, simile al dubbio metodico di Cartesio, secondo cui chi cerca la verità deve una volta nella vita dubitare di tutto”. Subito dopo, Mancuso scrive che per Socrate “sapere di non sapere è consapevolezza, quindi sapere”.

Leggendo “I colloqui e altre poesie” di Guido Gozzano, uscito in contemporanea al saggio di Mancuso, per l’editore Interno Poesia, si è tentati di applicare la tesi del filosofo milanese, trasferendola dalla dimensione della conoscenza a quella dell’amore, al poeta torinese. Potremmo dire, insomma, che il professarsi “incapace di amore”, da parte di Gozzano, era anzitutto un metodo secondo cui chi cerca l’Amore deve dubitare dei sentimenti che prova, districarsi tra tensioni e pulsioni, e filtrare con l’anima tutto ciò che arriva al proprio Io per il tramite dei sensi. E, inoltre, forzando la seconda frase di Mancuso (il filosofo ci perdoni), potremmo persino dire che sapere di non amare, e di non aver mai amato, è consapevolezza, quindi amore.

Alessandro Fo, appassionato e puntuale curatore del libro di Gozzano – che raccoglie il capolavoro del 1911, “I colloqui”, una scelta di poesie tratte da “La via del rifugio” (1907) e un piccolo campione della restante produzione – tenta, nell’introduzione, un colloquio con “guidogozzano”, con lo scopo di trovare un “rifugio” alla fine della conoscenza profonda dell’arte (fonti, rimandi, influenze…) e della persona (manie, sofferenze, delusioni…) del poeta torinese.

Quando un poeta entra nel mondo di un altro poeta può accadere di tutto perché entrare nel mondo di un collega, significa, per un poeta, dare ulteriori spazi di indagine alla propria ricerca personale, significa entrare in luoghi già preparati a quell’arte di soddisfare i dubbi che è anche propria. Insomma, il poeta che entra nel mondo di un altro poeta spera di trovare le risposte alle sue personali domande. E la possibilità di frugare nei cassetti e nelle scatole di latta abbandonate è un lavoro pieno di meraviglia.

Fo ci guida, in questo modo, alla conoscenza di un poeta per cui è supremo il bene che non giunge mai. E questo desiderio, mai soddisfatto, muove la vita e aiuta ad attraversare il tempo “specie ove intervenga l’arte a convertirlo in musica”; Fo ci aiuta a comprendere un poeta che ha raccontato il suo mondo riducendo la lirica a narrazione e che ha narrato rimanendo poeta; un poeta che va ringraziato – e Fo lo fa nel finale della sua introduzione – “per questa vita che «tra il Tutto e il Niente» ha dispiegato, e i cui travagli dòmina con l’aggraziata sua giocosa cifra”.

Ma perché leggere Gozzano cent’anni dopo? Perché è contemporaneo, nonostante l’abusare di oggetti che non erano più di moda nemmeno ai suoi tempi. “Nel suo mondo illusorio – scrive Fo – tutto assume significato in quanto ad altro rinvia (…) ovvero, più sottilmente allude”. E questo rinviare e alludere è uno strumento di conoscenza del reale efficacissimo anche oggi. È una difesa – proprio perché conoscenza – dai mali che affliggono i nostri giovani e che i nostri giovani vivono, purtroppo, senza la consapevolezza che invece mostra di avere Gozzano. È una chiave di lettura del mondo molto simile – ma solo nella parte destruens – a quella che utilizzano i nostri 30-40enni accusati di essere immaturi.

E Gozzano, nel 1920, avrebbe avuto proprio trentasette anni.

E se i nostri 37enni potessero praticare anche la pars construens gozzaniana? Non potremmo forse salvarli da quel destino, immaginato già qualche anno fa da “Gli sdraiati” di Michele Serra, caratterizzato da una superficialità patologica nel vivere i sentimenti?

Non è forse imbarazzo e ritrosia – per paura del dileggio da parte del “popol tutto” o dei “marinai” (Petrarca e Baudelaire) – a costringerlo a sistemare nel finale di un suo componimento la delusione successiva alla conclusione dell’atto amoroso, lasciando nello spazio meno evidente della parte introduttiva “la fonte di misteri immensi”? Non potrebbe essere questa, la seconda, la convinzione più profonda del poeta relativamente all’amore? Una convinzione da celare, però, per evitare di scrivere poi, di se stesso, “favola fui gran tempo” e per fare in modo che nessun marinaio lo imiti come fosse “lo storpio che volava”.

Ancora. Quando in una lirica racconta la storia di Paolo e Virginia, traducendola in versi da un romanzo della fine del Settecento, vuole davvero prendersi gioco dell’amore e affermare la sua inesistenza? Non potrebbe essere, la sua ironia, la reazione a un desiderio grandissimo e non realizzato? Non potrebbe essere, il suo cinismo, un sentimento di rancore nei confronti del destino che non gli dà l’occasione tanto voluta e non un disconoscimento dell’amore che invece desidera e canta? Non potrebbe essere che questo gioco di distruzione del sentimento miri a nascondere il desiderio realizzabile ma non realizzato di essere quel Paolo e non quel Paolo solo?

Questo lavoro prezioso di Alessandro Fo ci permette di riflettere, nel tempo presente così disastrato, sfilacciato e digitale, sull’essenza eterna e immutabile dell’amore. Ci invita al confronto tra le giustificazioni pigre e inconsapevoli all’incapacità di vivere oggi l’amore, le nostre, e quelle dinamiche e ardite, filosofiche e umane, di un poeta sottile e giocoso, attento alle piccole cose perché le riteneva riverberi di altre ben più profonde; un poeta che ha speso la giovinezza – nel suo caso coincidente con la vita intera – a cercare ciò di cui ancora oggi gli uomini hanno bisogno.

Giovanni Petta76 Posts

È nato nel 1965 in Molise. Ha pubblicato le raccolte poetiche «Sguardi» (1987), «Millennio a venire» (1998) e «A» (2016); i romanzi «Acqua» (2017), «Cinque» (2017) e «Terra» (2021) ; il saggio giornalistico «L'Italia delle regioni, il Molise dei ricorsi» (2001) e, con lo pseudonimo di Rossano Turzo, «TurzoTen« (2011) e «TurzoTime» (2016). Allievo di Mogol, ha inciso «Non crescere mai» (1993), «Trema terra trema cuore» (single, 2003), «Il bivio di Sessano» (2012). Ha diretto le testate «Piazzaregione» e «L'interruttore». Ha coordinato l'inserto molisano de «Il Tempo».

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