Quel ‘Favonio’ che soffoca Foggia. Antonio Colasanto: “È una dichiarazione d’amore incondizionato per la mia città”
Il 36enne foggiano, giurista e analista presso l’Omcom, l’Osservatorio mediterraneo sulla criminalità organizzata, firma il suo primo libro, edito dalla Ibc Edizioni – I Comunardi
da foggiatoday.it
“Era il 24 ottobre 1999, dodici anni non ancora compiuti, e avevo ormai smesso di guardare la mia città con gli occhi di un bambino. A Foggia, la mia città, c’era la guerra, la guerra di mafia”. Quel giorno, dinanzi al corpo esanime di Matteo Di Candia, vittima innocente di mafia, lo sguardo di Antonio Colasanto incrocia il sangue, il male e la mafia nelle strade della sua città. Il Favonio soffia fuori stagione e lo percepisce – è evidente – anche lui.
Da allora – era poco più che un bambino – ha sempre cercato di conoscere, studiare, analizzare il fenomeno criminale, per combatterlo. E oggi, il giovane giurista 36enne, analista presso l’Omcom, l’Osservatorio mediterraneo sulla criminalità organizzata, firma il suo primo libro, ‘Favugne, storie di mafia foggiana’, edito dalla Ibc Edizioni – I Comunardi.
Si tratta di un agile volume che ripercorre, in poco più di 120 pagine, la storia (e le storie) della mafia foggiana, dagli albori all’ultimo omicidio registrato nel 2022. Il racconto è articolato in 14 capitoli, più prologo ed epilogo. Il punto di vista è quello dell’autore, che mescola ricordi personali a dati di cronaca, per mettere insieme i pezzi di una storia che è cresciuta insieme a lui, negli stessi vicoli, di quella stessa città, soffocata dallo stesso vento: il Favonio (u’ favugne, in dialetto foggiano, che da il nome al volume), il vento forte e caldo che attraversa il Tavoliere. Un vento che, scrive Giovanni Macinone nella sua prefazione, “come una claustrofobica gabbia di calore, soffoca l’intero ecosistema economico-sociale”. Esattamente come la mafia.
Antonio Colasanto, come e perché nasce ‘Favugne’?
‘Favugne’ condensa prima di tutto due passioni: quella per la scrittura e quella per la sociologia e storia della criminalità organizzata. Nasce poi da un fallimento di vita: quello relativo alla bocciatura di un progetto di dottorato di ricerca presso la Statale di Milano, ovvero redigere un libro sulla storia della mafia foggiana. E’ un libro destinato soprattutto ai giovani, anche foggiani, che ignorano o sminuiscono la pericolosità sociale insita in questa fenomenologia, quasi del tutto ignorata dal giornalismo che conta e, fino a poco tempo fa, finanche dalle istituzioni.
Il racconto scorre tra le ‘storie’ della mafia foggiana, dagli albori fino a pochi mesi fa. Il punto di vista è quello dell’uomo della strada che cerca di mettere insieme i pezzi. Qual è l’obiettivo ultimo?
L’obiettivo è fornire un vademecum di facile fruizione ai profani della materia, eliminando errori interpretativi in cui cadono spesso anche alcuni addetti ai lavori. L’espressione ‘Quarta Mafia’ (che detesto) ricalca appieno questa incapacità di attribuire una identità specifica alla Società Foggiana, mischiandola a fenomeni criminali distinti, seppur contigui territorialmente.
Quale di questi ‘racconti’ ti ha maggiormente scosso?
Leggendo le pagine emerge il valore determinante che ha avuto per il sottoscritto la vicenda del povero Matteo Di Candia. Oltre ad esserne stato spettatore passivo in età adolescenziale, ha mostrato ai miei occhi l’efferatezza e la spregiudicatezza del modus criminale foggiano: “Il fine delittuoso giustifica qualsiasi mezzo e vittima, anche la più innocente”.
E’ stato in quel momento che hai percepito la presenza della mafia nella tua città?
L’omicidio Di Candia è stata la prova provata di dubbi e valutazioni sorte durante l’infanzia (sono nato e cresciuto in via Arpi, nel ‘feudo’ dei Francavilla). L’omicidio ha colmato i vuoti di un mosaico fatto di rabbia e repulsione, ma anche di interesse sociologico a comprenderne cause e caratteristiche.
In che modo la tua storia si è intrecciata con quella della ‘Quarta Mafia’, al punto di scriverne un libro?
La mia vita si intreccia con la Società già dall’epoca delle elementari. Nel tragitto verso casa spesso vedevo “i capelloni”, membri di spicco della famiglia Francavilla, appollaiati sulle loro moto nella piazza. Percepivo un’aura di timore reverenziale negli occhi di chi li incontrava, e non capivo. Alcuni ragazzi della zona sussurravano “Quelli comandano qui”, e non capivo. Dopo quel giorno ho capito tutto.
Di Società Foggiana, o di Quarta Mafia, se ne parla tantissimo e negli ambiti più disparati. Ritieni che a questa ‘popolarità’ risponda una effettiva conoscenza del fenomeno (e dei pericoli ad esso connessi)?
Ho iniziato a sentir parlare di ‘Quarta Mafia’, in maniera massiva, solo dopo la strage di San Marco in Lamis, in quel sonnacchioso 9 agosto 2017. Il prima è solo fatto di silenzio istituzionale e mediatico, intervallato dalle notizie fornite dalla sola stampa locale. Il dopo? C’è ancora chi mescola Società Foggiana, mafia cerignolana e mafia garganica in un unico calderone categoriale. C’è ancora troppa ingenuità o peggio ignoranza.
Hai definito questo libro una “dichiarazione d’amore incondizionato per Foggia”, nonostante l’argomento è quella antica zavorra che ne blocca ogni sviluppo o slancio. Perché?
Il vero amore è solo quello che supera indenne la consapevolezza dell’altrui imperfezione. Ed è quello che è successo con la mia città, soprattutto dopo averla abbandonata. Definisco spesso Foggia la più ingrata delle madri, perché costringe i suoi figli più meritevoli ad allontanarsi. Ma non si può non amare una madre, per quanto sia sconsiderata ed egoista. Sarebbe un atto innaturale.
Sul tuo braccio hai impressi i volti dei giudici Falcone e Borsellino e la frase ‘Io non ho paura’. Come si può costruire, concretamente, la legalità? Come vincere la paura o, più banalmente, l’indifferenza?
Sul mio braccio ci sono due uomini, ma in realtà c’è un’idea. L’idea che per costruire la legalità si debba procedere dal basso delle fondamenta culturali. Partire dalle scuole, dai centri educativi. Prospettare una visione alternativa all’illegalità che sia valida e sostenibile, con particolare focus sui quartieri periferici come Candelaro. Inculcare nei giovani l’idea che la via dei soldi facili è destinata a fallire in prospettiva futura e che quella sostenibile è fatta di sacrificio e rispetto delle regole. Spero che questo libro, nel suo piccolo, riesca a dare un contributo in termini di rivoluzione culturale. Quella rivoluzione di cui parlavano proprio Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
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