Un saraceno che domina su Cercemaggiore

di Francesco Manfredi-Selvaggi

È un monte che nel toponimo rimanda a vicende bellicose le quali conferiscono un’aura particolare a questo insediamento posto ai suoi piedi.

È una piccola montagna, supera di poco i 1.000 metri (per la precisione è alta m. 1086), ma forse perché isolata è un elemento ben riconoscibile di un contesto paesaggistico ampio che comprende pure il capoluogo regionale. Infatti, è visibile da questo centro e pure dalla piana di Boiano, una zona attraversata da importanti vie di comunicazione ferroviarie e stradali, delle quali essa costituisce un fondale costantemente, o quasi, presente. È da dire che il lato che essa volge al Molise è quello più conservato perché la grande cava della ditta cav. Felice Vincenzo è sul versante opposto il quale è in direzione della Campania; qui, va sottolineato, non vi sono consistenti agglomerati urbani bensì comuni minori come Castelpagano ed alcune borgate di Cercemaggiore, si cita quella denominata Di Florio. Cercemaggiore è l’aggregato edilizio più consistente oltre che il più vicino e però è situato dalla parte in cui l’attività estrattiva non si può percepire. Bisogna aggiungere per quanto riguarda l’impatto della cava che essa non costituisce un grave detrattore ambientale neanche osservata dal contiguo territorio campano poiché i quadri visivi che da qui si aprono guardando in questa direzione essendo tanto ampi sono capaci di assorbire le opere, anche di scala non proprio minima, che vi si collocano; pure quelli, quale l’attività estrattiva in questione, che alterano i fatti primari del paesaggio, il principale dei quali è la cima del monte.

Per l’ovvio principio della reciprocità, che è la stessa cosa di intervisibilità, e tenendo conto che all’intorno non vi sono rilievi montuosi più elevati salvo il massiccio del Matese, dalla, per così dire, vetta di monte Saraceno si aprono ampi panorami con lo sguardo che si estende a giro d’orizzonte pressoché completo. Costituendo tanto un’eccezionale punto di avvistamento quanto una postazione difensiva sicura (piaciuta pure ai saraceni) il nostro luogo venne scelto dai Sanniti per costruirvi una cerchia muraria, in verità due, che racchiudono l’area sommitale. Del perimetro delle cinte sono rimasti pochi tratti di murazioni fatti di grossi blocchi, comunque non “ciclopici”, lapidei le quali dovevano presumibilmente essere sormontate da strutture di protezione in elevato molto rudimentali, formate da terra, ciottoli di pietre, mattoni crudi o pali di legno. Tutti materiali deperibili i quali hanno contribuito a rendere incerta l’immagine della fortificazione: per via di tale labilità del “segno” delle mura bisognerà porre grande accortezza nel valutare qualsiasi eventuale progetto di ampliamento del sito di estrazione.

I resti archeologici dell’antico Sannio sono importanti in sé, pur se di limitata evidenza, e anche se si considera che essi costituiscono una tappa fondamentale della storia di questo territorio. Qui da noi non si è avuta la sovrapposizione nel tempo, nel medesimo posto delle diverse civiltà che hanno abitato il comprensorio, bensì si è avuta la giustapposizione degli episodi insediativi nelle varie fasi storiche. In epoca romana gli insediamenti prediligevano la pianura e così nella vicina piana di Sepino sorgeva Altilia. Nel periodo successivo si ebbe lo spopolamento della regione e la ripresa della vita civile la si deve alla nascita di poli monastici che a Cerce è avvenuta a mezza costa. Si tratta di conventi sorti non in base ad una volontà delle autorità ecclesiastiche, quella Domenicana che ha retto il monastero della Libera di Cercemaggiore per molti secoli, di sottomettere sia pure spiritualmente la popolazione quanto piuttosto di ricondurre a coltura lande abbandonate.

Questa realtà conventuale è molto legata, la gente del circondario forse riconoscendone il ruolo positivo svolto e la presenza religiosa si avverte un po’ ovunque, dall’edicola votiva che sta nell’incrocio viario prossimo al convento alla bellissima chiesa romanica di S. Maria del Monte (un altro monte, questo di m. 1030, appena più basso di m. Saraceno di cui è dirimpettaio) con la facciata ornata da un portale fortemente strombato. Questo santuario posto in altura ci ricorda la sacralità delle vette che nel caso di un Saraceno non va violata dall’escavazione. Al medioevo si fa risalire pure la formazione di un nucleo abitato il cui nome, Cercemaggiore, rivela il legame con l’agro. All’”età di mezzo” risale la torre di Caselvatico, un presidio di difesa in campagna, lontano dall’abitato di Cerce, proprio sulla linea di confine del Molise. L’attuale demarcazione sembra un qualcosa di fittizio, semplicemente di natura amministrativa non corrispondendo a una barriera geografica quale sarebbe potuta essere un fiume o un’emergenza montuosa, ad esempio il monte Saraceno che, invece, è interamente molisano.

M. Saraceno è solo parzialmente uno spartiacque, favorendo la divisione dei bacini del Tammaro e del Fortore, corpi idrici confluenti in due mari diversi, rispettivamente il Tirreno (tramite il Volturno) e l’Adriatico. Invece di fattore di divisione tra sistemi idrografici, tra ambiti regionali, il m. Saraceno sembra avere una funzione di cerniera come si conviene alle montagne le quali hanno sempre accomunato i popoli, almeno del passato, in quanto destinate al pascolo, una pratica che impone la conduzione in comune dei terreni. Il prato che ricopre la fascia superiore del monte Saraceno costituisce un habitat di particolare valore, in codice il G210, che insieme ad altri due habitat, questi di tipo forestale, porta al riconoscimento del sito quale Sito di Importanza Comunitaria. Le eccezionali valenze naturalistiche impediscono che si possa estendere fin qui la cava di cui si è detto in un’ipotesi di accrescimento.

Non deve essere quello che abbiamo oggi l’ambiente originario potendosi ritenere che esso sia il frutto di trasformazioni prodotte dall’uomo che ha teso ad utilizzare ogni risorsa del territorio disponibile. Le coltivazioni si sono affermate anche alle altitudini maggiori attraverso il disboscamento: va dato merito, paradossalmente, all’emigrazione (che si è svolta a Cercemaggiore verso Comuni con migliori potenzialità agronomica poiché nella vallata del Tappino, Campodipietra e Mirabello specialmente) di aver ridotto la pressione antropica sulla montagna e permesso la ricostituzione di equilibri ecologici. È rimasta e si è allargata nei decenni la cava dalla quale vengono estratti gli inerti con cui si sono costruite tante nuove abitazioni che hanno portato Cercemaggiore ad uno sviluppo urbanistico significativo nonostante il flusso emigratorio. La predetta attività estrattiva è lo scotto che si è dovuto pagare alla modernità, il contrappeso al recupero dell’ecosistema favorito dalla diminuzione dello sfruttamento agricolo delle quote più elevate conseguenza dei due fenomeni concomitanti della fuoriuscita degli occupati dal settore primario e dal trasferimento di persone per ragioni di lavoro in altre località.

1 Comment

  • Stefano Vannozzi Reply

    8 Febbraio 2018 at 14:09

    Gent.mo dott. Manfredi Selvaggi,
    ho sempre letto con interesse i suoi scritti ed ammirato la sua continua e strenua difesa per i valori ambientali e storici di questa Regione, ma questo suo ultimo intervento su una “Montagna” che mi sta molto a cuore mi ha lasciato un po alla sprovvista…
    Premesso che l’odierno toponimo di monte Saraceno è originato da un’invenzione moderna introdotta agli inizi del XIX secolo e consolidatasi nella seconda metà dello stesso soppiantando l’antico e plurisecolare nome longobardo di monte Piandolfo o Pianadolfo, non riesco a comprendere dove voglia giungere. La cava, che volge a Nord, Nord-Est dirimpetto alla montagna di Gildone, e quindi in pieno territorio molisano (e non a Est, come scrive verso la Campania) ha mangiato una fetta non irrilevante del paesaggio montano. Al contrario del danno visivo e ambientale, che nessuno potrà mai in alcun modo risarcire, l’attività estrattiva non produce granché di rendita per le casse comunali. La sua esistenza e fortuna si base essenzialmente sul fatto che affaccia visivamente su zone rurali non molto abitate e sull’assenza di una cultura civica di base volta al bene comune, in un’area depressa sotto l’aspetto civile e lavorativo, dove domina un ufficioso ma diffuso senso di omertà, del “non vedo, non sento, non parlo” ovvero: “sono una brava persona perché mi faccio gli affari miei”. Tale situazione (ritengo e ne converrà con me) è diffusa in Molise più di quanto non si voglia far apparire. Pertanto scrivendo anche di una cava, non concordo sulla minimizzazione che sembra descrivere sull’impatto ambientale e visivo che c’è ed è ancor più evidente a distanza per chi proviene da Riccia o dalla strada mulattiera di Gildone. Non me ne voglia, mi creda. è solo un appunto, proprio per la grande stima che ho verso di Lei e le sue opere di grande valore intellettuale. Cordialmente

    Stefano Vannozzi

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