Italia anni Ottanta. La musica nascosta

Intervista con Roberto Calabrò

L’accelerazione vissuta in campo musicale dal secondo dopoguerra è stata una scossa in diverse aree del pianeta, nuovi generi musicali attraversano l’Oceano, contaminandosi, e si guadagnano una notevole attenzione da parte di una nuova generazione di giovani che al contempo si prende uno “spazio” sociale prima inesistente, diventando anche un obiettivo strategico del nascente mercato discografico. Col passare degli anni, le mire di mercato e la forza delle grosse etichette discografiche hanno sempre più oscurato tutto ciò che non producevano direttamente, nascondendo “quell’underground” da cui in alcuni casi anni prima avevano pescato a piene mani. In Italia, negli anni Ottanta, esisteva una ricca, variegata e importante scena musicale che radicava la propria origine nella riscoperta del beat, del garage e della psichedelia. E’ rimasta pressoché sconosciuta per tanto tempo. Con Roberto Calabrò, che ha dedicato un importante lavoro a questo universo, cerchiamo di capire i motivi della rimozione “storica” di intere scene musicali cittadine, e poi la potenziale riscoperta stimolata anche in quest’ultimo periodo dalla sua pubblicazione “Eighties Colors. Garage, Beat e Psichedelica nell’Italia degli anni Ottanta”, per Coniglio Editore, una pubblicazione che con immagini, testi, riproduzione della grafica di molti simboli del periodo ci riporta in cantine, locali e negozietti di vinili, rivivendo un po’ il sudore e l’energia dell’underground italiano, che di fatto si contrappone alle immagini patinate degli anni Ottanta della nascita delle televisioni commerciali (anche musicali) e di una classe dirigente politica che mentre mostrava i suoi lustrini si avviava a pagare il conto di “mani pulite”.

L’invasione rock’n’roll proveniente dagli Usa nella seconda metà degli anni Cinquanta ebbe un grosso impatto in Europa e in Inghilterra in particolare. Partirei proprio dall’Inghilterra, per chiederti se il solo aspetto culturale (la lingua per esempio) basti a spiegare il modo imponente in cui il nuovo fenomeno travolse una generazione di adolescenti che imbracciò senza indugio strumenti musicali e preparò a sua la “british invasion” ai danni degli USA?
Sicuramente la lingua e gli strettissimi scambi culturali e commerciali tra Regno Unito e Stati Uniti determinarono una sorta di influenza reciproca tra le due sponde dell’Oceano. Alla fine degli anni Cinquanta i dischi di importazione arrivavano in Inghilterra attraverso i marinai e i militari statunitensi che poi li rivendevano a negozi e privati. Una generazione di futuri musicisti si abbeverarono al jazz, al blues e al rock’n’roll primigenio attraverso questo tipo di scambi. Poi a loro volta quei musicisti puristi del blues, come i primi Stones, gli Yardbirds, gli Who, divennero nei medi anni Sessanta una grande influenza per una generazione di ragazzi americani che, passata la grande eccitazione per il rock’n’roll, non trovavano negli States dei nuovi idoli in cui riconoscersi. La “British Inasion” si spiega così. Quel processo di costante influenza reciproca, di osmosi, è continuato a lungo: penso anche al punk. Nato negli Stati Uniti con i Ramones e poi divenuto fenomeno – di nicchia, prima, commerciale poi – nel Regno Unito.

I giovani erano a qual tempo una fascia sociale (e poi anche una fetta di mercato) che non esisteva di fatto fino a quel momento, a 18 anni si passava da essere ragazzini a essere adulti, senza troppe storie, è anche per questo anelito a una identità generazionale che la musica rock (nelle varie derivazioni) continua a essere a tanti anni di distanza, e con meno attrattiva forse, sempre un possibile canale esistenziale che va oltre le sonorità stesse?
Sicuramente i teenager come categoria a sé non esistevano fino alla metà degli anni Sessanta. Nel periodo della guerra e nel dopoguerra si diventava adulti, con tutte le responsabilità che ne derivavano, assai presto. Poi la generazione dei cosiddetti “baby boomers”, nati subito dopo la guerra, improvvisamente ridefinì il concetto di adolescenza: quei ragazzi si trovavano a vivere in un periodo di pace, con prospettive assai migliori dei loro padri. E soprattutto avevano tempo e un bel po’ più di soldi a disposizione. Tempo e soldi che venivano spesi a comprare vestiti, dischi e strumenti musicali, a formare band, a cercare di far colpo sulle ragazze. La musica divenne la colonna sonora di quelle vite, ebbe un effetto dirompente, cambiò i rigidi stili di vita tradizionali, ridefinì valori e sogni di una generazione. E’ dalla metà degli anni Sessanta che si inizia a parlare di culture giovanili. Culture che si sono susseguite senza soluzione di continuità e in cui la musica ha sempre rappresentato un elemento centrale, cruciale, nelle vite degli adolescenti e dei ventenni, fino almeno agli anni Novanta. Poi con l’inizio del nuovo millennio la scena musicale si è frammentata in mille rivoli, l’avvento del free download e la crisi dei formati discografici tradizionali ha comportato la scomparsa di molti negozi di dischi. Con essi è morta una cultura. Oggi per la maggior parte degli adolescenti il rock, come lo abbiamo inteso per cinquant’anni, non ha più lo stesso valore, né la stessa forza rivoluzionaria, non è più una parte imprescindibile della propria esistenza. Si è ridotto a bene di consumo, sullo stesso piano dei gadget tecnologici usa e getta di cui sono divoratori voraci e compulsivi. Per molti di loro, per fortuna non per tutti, il rock è semplice musica di sottofondo, non più musica che ti cambia la vita.

In Italia, nei Sessanta, forse anche sulla spinta delle esigenze di mercato delle case discografiche, il rock e il beat arrivano spesso sotto forma di cover, tu a questo proposito come valuti la scena italiana di quegli anni?
Su questo argomento si potrebbe aprire una discussione lunga e complessa. Perché se è vero che, soprattutto per quel che riguarda gli artisti e i complessi più noti al grande pubblico, i brani di successo erano spesso e volentieri cover di classici americani e inglesi rivisitati per il mercato tricolore, con arrangiamenti più soft e testi in italiano, è altrettanto vero che c’erano molti gruppi “underground” che sperimentavano soluzioni musicali assolutamente al passo coi tempi.

Nel libro affronti per intero con grande perizia, passione e sapienza un mondo, quello underground italiano degli anni Ottanta, che in un periodo, come dire, non coperto dai nuovi media, rimane legato alla memoria e  ai vinili che ne restano. Oltre che faticosa e interessante, è stata anche un po’ autobiografica questa ricerca? Come nasce questo lavoro?
“Eighties Colours” nasce dal desiderio di colmare una lacuna storica dell’editoria e della storiografia rock italiana. Fino all’uscita del mio libro gli anni Ottanta italiani erano stati indagati e descritti in relazione ad alcune scene cittadine (Bologna, Firenze, Pordenone) o ad alcuni movimenti musicali (la new wave, il punk e l’hardcore, il nuovo rock italiano cantato in italiano), mentre sulla cosiddetta scena neo-Sixties sembrava calata ingiustamente una cappa di oblio. Una dimenticanza grave se si considera che i gruppi e le etichette discografiche neo-Sixties avevano fortemente caratterizzato quel decennio: basta andare a rileggersi i vecchi numeri di “Rockerilla” per rendersene conto. Ti dirò di più: secondo me (e non solo secondo me) dopo il prog all’inizio degli anni Settanta, la scena garage, beat e psichedelica italiana ha rappresentato l’unico momento in cui la musica prodotta nel nostro Paese è stata al passo con i tempi, considerata alla stregua delle migliori scene internazionali, nello specifico quella americana e scandinava. L’intento del mio libro era quello di accendere nuovamente i riflettori sulla scena più vitale ed effervescente dell’underground italiano degli anni Ottanta. E, visti i risultati, credo di esserci riuscito.

Tra i Sessanta e gli Ottanta, a differenza del beat originario, c’erano stati in mezzo altri generi che avevano avuto la ribalta, come il punk per esempio. In Italia come si incrociavano, o si influenzavano  (se succedeva) questi circuiti e generi?   
Molti dei protagonisti della scena neo-Sixties italiana erano passati attraverso il punk o la new wave. Solo che a metà anni Ottanta non si riconoscevano più in quegli input culturali e trovarono la loro via di fuga nella riscoperta di un passato magico e ricco di sorprese. Un passato che cercarono, se non di far rivivere, di attualizzare e di rendere nuovamente intrigante. La cosa bella della scena underground italiana di quel periodo è che non c’erano compartimenti stagni, non esistevano grossi steccati: si andava a un concerto dei CCCP e la settimana seguente si seguivano con la stessa passione i Sick Rose. Poi chiaramente esistevano i cultori di un genere, quelli in fissa con un determinato tipo di suono o di estetica. Ma, in generale, quello che contava era il senso di appartenenza a una comunità underground, antagonista e alternativa a ciò che proponeva la cultura ufficiale (e televisiva) dell’epoca. Nello stesso gruppo di amici, che si scambiavano dischi, libri, fanzine, opinioni, c’era chi l’appassionato del dark, chi seguiva con passione la scena neo-Sixties, chi amava i gruppi del cosiddetto “nuovo rock italiano” (Litfiba, Diaframma, ecc.). Senza problemi. Anche all’interno della scena neo-Sixties le suggestioni che arrivavano dagli anni Sessanta erano diverse: la neopsichedelia, innanzitutto, ma anche il garage, il beat, il mod. Anche qui, però, non c’erano compartimenti stagni. Se andavi pazzo per il garage-punk dei Sick Rose, non c’era motivo per cui non potevi allo stesso tempo amare le atmosfere misticheggianti dei No Strange.

Gli anni Ottanta forse sono stati il decennio in cui al mondo si sono venduti più vinili, e paradossalmente è stato forse anche il periodo in cui il cosiddetto “underground” aveva meno visibilità, basta solo l’assenza della rete, di internet a spiegare tutto questo?
No, non basta. Certo, oggi Internet con le sue innumerevoli applicazioni ha accorciato le distanze e reso l’informazione e la condivisione di notizie e di musica estremamente più semplice e veloce. Quello che non ha permesso una maggiore visibilità alla scena underground del periodo è stata soprattutto la mancanza di mezzi economici: le etichette indipendenti non avevano delle strutture, essendo nella maggior parte dei casi il frutto della passione e del lavoro, spesso anche abbastanza improvvisato, di singoli appassionati: a volte giornalisti, qualche volta musicisti, raramente imprenditori dell’industria discografica. Un altro motivo poi è da rintracciarsi nella miopia culturale e nella poca curiosità intellettuale di chi gestiva gli spazi musicali in radio e televisione. E per radio e televisione mi riferisco soprattutto alla Rai. Se avessimo avuto un servizio pubblico eccellente, al pari ad esempio della BBC, certi gruppi – pur underground – avrebbero avuto un’esposizione mediatica nettamente superiore. Qualche caso ci fu, ricordo i Party Kidz o i Kim Squad in tv, ma si trattò di casi isolati.

Quali erano per grandi linee i luoghi in cui si sviluppava il circuito che oggi forse con un po’ di approssimazione si chiamerebbe “indipendente” in quegli anni?
Fondamentalmente i negozi di dischi e i club dove si tenevano i concerti. Luoghi dove ci si conosceva e ci si confrontava, dove nascevano e si cementavano delle amicizie e delle passioni. Le “tribù” sotterranee si incontravano soprattutto in questi posti.

Il tuo racconto è molto dettagliato in quanto ai principali centri di origine e diffusione del fenomeno, penso alla descrizione della scena milanese o bolognese, alla nascita di gruppi importanti a Roma e Torino, c’erano collegamenti tra questi centri o erano delle monadi che crescevano indipendentemente l’una dall’altra?
Dipende dalle situazioni. Roma, ad esempio, visse la scena neo-Sixties in maniera molto distaccata dal resto d’Italia. C’era poca collaborazione tra i gruppi che erano, come dici tu, abbastanza atomizzati. In altre realtà invece il livello di scambio e condivisione era nettamente superiore e anche tra gruppi di città diverse, a volte anche molto lontane, si instauravano relazioni e  collaborazioni che sfociavano in concerti e tour.

Guardando la storia di alcune band dell’epoca addirittura erano luoghi d’incontro privilegiati piccoli negozi di dischi, ora sarebbe quasi impossibile una cosa del genere…
I negozi di dischi che resistono, ce ne sono ancora sparsi un po’ in giro per l’Italia, svolgono ancora questo ruolo di diffusione della cultura indipendente e alternativa. Penso ad esempio a Hellnation, il negozio di Roma che io frequento abitualmente e che è gestito da un agitatore culturale come Roberto Gagliardi (per tutti Robertò), ma anche Psycho a Milano, Backdoor a Torino o Rock Bottom in quel di Firenze…

Quali sono  i gruppi principali che hanno contribuito all’importanza di quegli anni, i Sick Rose per esempio?
Sono molti, impossibile elencarli tutti. I Sick Rose sicuramente sono stati la garage band italiana più importante, conosciuta e apprezzata anche all’estero. Su un versante neospichedelico i No Strange di Torino, i Birdmen of Alkatraz di Pisa e i Magic Potion di Roma. Gli Avvoltoi di Bologna per quel che riguarda il beat. I Peter Sellers di Milano e gli Allison Run di Brindisi (ma di stanza a Bologna) per ciò che riguarda il pop psichedelico. Poi c’era una band come i Not Moving, forse la più grande di tutte, che riuscì a incorporare tutte le influenze neo-Sixties nella propria formula musicale ibridandole con il blues e il rock’n’roll più oscuri. Con risultati devastanti. Ma di band intriganti ce n’erano moltissime: per un quadro più completo ed esaustivo, vi invito a leggere “Eighties Colours”.

Possiamo demarcare con un disco o con un gruppo l’inizio e la fine del periodo neo sixties in Italia?
Sebbene ci fossero stati dei gruppi che avevano già iniziato qualche anno prima a suonare musica che fosse legata apertamente alla magia degli anni Sessanta, fu la raccolta “Eighties Colours” prodotta nel 1985 dalla Electric Eye di Claudio Sorge a rendere quella scena visibile e reale. Molti gruppi realizzarono di non essere soli, ma parte di una rivoluzione  sotterranea in atto, grazie a quel disco. Che, proprio per questo motivo, rimane il più importante di tutti e segna, di fatto, l’inizio della felice stagione neo-Sixties in Italia. La fine della scena, che io colloco attorno al 1990, era in realtà iniziata qualche anno prima. Gli incredibili lavori di Backwards (“Eerie Thoughts Collection part 3) e Views (“Mummycat The World n. 2”), entrambi usciti per Crazy Mannequin nel ‘90, rimangono per me il canto del cigno di quella felice stagione creativa.

Cosa c’è da andare a recuperare oggi di quegli anni, sia dal punto di vista musicale che culturale?
Musicalmente c’è molto da recuperare e riscoprire. E infatti stanno uscendo diverse ristampe di dischi di quel periodo che non avevano mai visto la luce su CD. Questa opera di “archeologia musicale”, iniziata prima che il libro uscisse (con le ristampe di Avvoltoi, Pikes In Panic, Leanan Sidhe, Four By Art, Not Moving, Sick Rose) ha subito una nuova accelerazione grazie al rinnovato interesse su quella scena generato da “Eighties Colours”. E’ stata ristampata da poco l’opera omnia dei visionari Steeplejack, a breve uscirà “Shaking Street”, il secondo album dei Sick Rose, in autunno è prevista la ristampa dei due album dei Magic Potion. Ma molti altri titoli, secondo me bellissimi, mancano all’appello: tra questi i dischi di No Strange, Allison Run, Birdmen of Alkatraz, Peter Sellers & The Hollywood Party, Liars, Backwards, Views. Il mio auspicio è che vengano ristampati presto.

Roberto Calabrò (Reggio Calabria, 1971), giornalista, scrive per «L’Espresso», «la Repubblica» e «il Venerdì» e per il mensile musicale “Blow Up”. Da oltre venti anni si occupa di tutto ciò che riguarda la cultura underground e il rock’n’roll: è stato a lungo una firma del mensile «Rockerilla» e ha collaborato con molte altre testate specializzate – tra cui «Rumore», «Bassa Fedeltà», «Urlo», «Ruta 66», «I-94 Bar» – in Italia e all’estero.  Direttore responsabile della rivista «Freak Out», blogger e appassionato di “citizen journalism”, prima di Eighties Colours  ha pubblicato Queens Of The Stone Age: il suono del deserto (Arcana, 2004). Per la stessa casa editrice ha curato la revisione editoriale dell’Enciclopedia Rock 1954-2004.

Ernesto Razzano7 Posts

Nato a Benevento nel 1971, ha vissuto per molti anni a Firenze, dove si è laureato in Scienze Politiche/Storia. Dopo qualche anno a Bologna ritorna a vivere a Benevento, dove insieme ai suoi soci crea il Morgana Music Club. Giornalista pubblicista scrive di musica, cinema e libri per le pagine culturali di alcuni periodici. Ha scritto e pubblicato alcuni racconti. E’ stato ideatore e curatore di programmi radio. Da qualche anno collabora stabilmente con la rivista molisana Il Bene Comune.

0 Comments

Lascia un commento

Login

Welcome! Login in to your account

Remember me Lost your password?

Lost Password