Usciremo di nuovo dalle nostre case

di Gino Massullo

Pubblichiamo l’intervento di Gino Massullo riferito al dibattito che vogliamo stimolare su “Il Molise dopo il coronavirus”, avviato dagli interventi di Monsignor Bregantini e di Antonio Ruggieri

La storia non è mai stata magistra vitae

Nell’inserirmi nel dibattitto acceso dalle considerazioni di mons. Bregantini e quelle successive di Antonio Ruggieri a proposito della lezione (l’ennesima peraltro) che ci viene dall’attuale pandemia sull’assurdità del feroce modello di sviluppo neoliberista che governa il mondo ormai da molti decenni, non mi soffermo sul loro punto di vista, tanto è esso, non solo condivisibile, ma di assoluta, inconfutabile evidenza.

Voglio invece subito partire dalla domanda che mi è subito sorta leggendo i loro articoli: che fare e come fare perché il loro appello sia efficace e i loro auspici si realizzino effettivamente?

Sbaglieremmo, io credo, se pensassimo che la tragedia che stiamo tutti insieme, nel mondo, vivendo, per quanto enorme ed epocale, potrà bastare per se stessa a cambiare l’animo e la testa di governanti e governati, inaugurando automaticamente un futuro di nuovo umanesimo. La Storia non è mai stata, ahinoi, magistra vitae ed anche la Memoria fatica a difenderci dagli errori del passato, come i vomitevoli rigurgiti di razzismo, neofascismo e neonazismo che, anch’essi come un virus, si vanno diffondendo dappertutto, dimostrano. L’attuale pandemia sembra addirittura mostrare come neppure l’esperienza più immediata e diretta possa essere condivisa per il meglio. Basti osservare la stolida ripetizione di medesimi errori messa in atto dai diversi governi e autorità sanitarie nazionali nell’affrontare la situazione, tenendo davvero in poco conto quanto già avvenuto, e solo poche settimane prima, in Cina ed in Italia.

Quanto poi a solidarietà e altruismo, a specchio dell’esempio magnifico rappresentato da medici, infermieri, volontari in prima linea nella lotta contro la pandemia, abbiamo gli egoismi nazionali persino per l’accaparramento delle mascherine sanitarie e il generale disinteresse per altre tragedie che non hanno smesso di accadere in giro per il mondo, anche in aree a noi molto vicine, come nel caso dei profughi siriani ricordati da Antonio Ruggieri.

“Passata la nottata” avremo probabilmente più voglia di dimenticare che di tenere in conto l’esperienza. Come sempre, soltanto una incisiva azione politica potrà avviare un nuovo più umano corso storico.

Per un’altra globalizzazione

In realtà la dura prova a cui siamo oggi sottoposti ripropone con forza le fondamentali questioni, già da tempo sul tappeto, del governo democratico della globalizzazione, del completamento del processo di unificazione europea, dell’ordinamento dello Stato nazionale, delle forme della politica, di quelle della rappresentanza e dell’azione sociale. Questioni evidentemente enormi che la crisi economica e sociale che seguirà quella sanitaria riproporrà in maniera amplificata.

Una gestione democratica della globalizzazione vorrà dire, quantomeno, decidersi finalmente a perseguire davvero obiettivi quali l’attuazione di politiche economiche finalizzate allo sviluppo umano, la riduzione dell’instabilità finanziaria, il contenimento delle minacce globali alla salute (per l’appunto), il contrasto al crimine globale e alle violazione dei diritti umani, intensificazione dell’azione pubblica per sviluppare tecnologie a favore di uno sviluppo ecosostenibile e dello sradicamento della povertà, l’inversione del processo di marginalizzazione dei paesi poveri. Tutti obiettivi formalmente, e finora inutilmente, fatti propri dalle Nazioni Unite fin dalla metà degli anni Novanta.

E per un altro Stato, più equo ed efficiente

Sul piano dell’ordinamento statuale ad essere chiamato in causa è lo stesso decentramento amministrativo, soprattutto nelle sue più recenti forme federalistiche e di estremizzazione autonomistica. In particolare nei settori dei servizi primari, come Istruzione e Sanità, la frantumazione regionalistica mostra ormai appieno il suo carattere di inefficienza e classismo, geografico e sociale. Il diritto costituzionale di ogni cittadino ad avere servizi di pari qualità in tutto il territorio nazionale è palesemente violato. A questo dovremo dare una risposta.

Le forme (in crisi) della politica

Sulle forme della politica ci si va interrogando ormai da almeno un trentennio, da quando cioè, con la caduta del muro di Berlino, la forma partito tipica del secondo Novecento è definitivamente entrata in crisi. In molti – e spesso a sinistra – hanno creduto che insieme all’acqua sporca si dovesse buttare via anche il bambino. Hanno immaginato, o scientemente fatto credere, che non l’ultima, in ordine di tempo, specifica forma partito realizzata nella storia fosse superata, ma che lo fosse la forma partito tout court. Salvo poi riproporne in continuazione altre, mistificanti, retoricamente hi-tech, con obiettivi quali la democrazia diretta, la disintermediazione, la riduzione dei rappresentanti politici al rango di semplici portavoce di una immaginata e malintesa volontà popolare. Obiettivi che, se non vogliamo limitarci a considerare semplici fanfaluche, dobbiamo vedere per quello che storicamente sono effettivamente state: l’anticamera del totalitarismo, che di nuovo pericolosamente si appalesa, ovviamente nelle forme proprie del Terzo Millennio.

Le forme di partito sono state nella storia numerose, dal partito di notabili di primo Ottocento, al partito di massa otto-novecentesco, al partito acchiappatutto del secondo dopoguerra, fino agli attuali partiti – comitati elettorali, ed hanno di volta in volta corrisposto alle forme dell’economia e del conflitto sociale in atto, nel proprio del tempo. Oggi l’aggregazione sociale intorno ad un partito, ed al suo – necessario – progetto politico non potrebbe certo avvenire nelle forme dello scontro di classe tipico della società fordista che aveva nella fabbrica il suo luogo e nel lavoro il suo cardine, ed è evidentemente tutta da costruire, ma è giunto il tempo di individuare e costruire la forma partito del Terzo Millennio.

La rappresentanza è parcellizzata e ingabbiata nella proliferazione dei momenti elettorali, da quelle per i comuni e i municipi, per le province, le regioni e fino al parlamento nazionale, come se la moltiplicazione delle istituzioni rappresentative fosse di per sé garanzia di maggiore democrazia. In un paralizzante ginepraio di rappresentanze e competenze – concorrenti, sussidiarie e chissà cos’altro ancora – cerchiamo da tempo di districarci, immaginando contemporaneamente nuove forme di partecipazione sociale che – giustamente – tutelino i territori, le minoranze, i beni comuni. Con risultati direi tutto sommato abbastanza scarsi, quasi sempre connotati dal dilemma tra la difesa di un interesse generale sempre più difficile da affermare e quella, molto meno nobile, del proprio giardino (Not in my back yard).

Un nuovo partito per un cambiamento radicale

Credo sia giunto il tempo di smetterla con tali certo generosi ma velleitari e frustranti esercizi. La pandemia in corso che sta cambiando radicalmente la nostra vita per molti dei suoi aspetti, e non soltanto per la contingenza ma strutturalmente, può essere uno spartiacque anche per questo.

La risposta che saremo chiamati a dare una volta superata l’emergenza sanitaria, alle questioni sul tappeto dovrà scaturire dalla consapevolezza che è stato proprio il depotenziamento dei corpi intermedi a creare quel dirigismo, quel centralismo di fatto nascosto dietro la sbandierata istanza della partecipazione diretta, che ha impedito alle forze di governo di leggere i territori, di assumerne gli interessi, emarginando dal processo politico interi settori sociali, mostrando una sostanziale incapacità di mediazione democratica tra istanze diverse, che è poi la capacità stessa di governare.

Diviene dunque prioritaria la riaffermazione, ovviamente aggiornata ai tempi, dei partiti come strumenti di lotta politica, di formazione e selezione del ceto politico, come intellettuali collettivi capaci di elaborare programmi di medio e lungo termine. Come pure necessaria è la rivitalizzazione del ruolo di rappresentanza e di mediazione degli interessi dei corpi intermedi; nell’ambito di un quadro istituzionale che non riduca il decentramento amministrativo in pantomima federalista surrettiziamente secessionista e nel quale sia riaffermato il valore del servizio pubblico e il suo carattere nazionale almeno nei settori della sicurezza, della scuola e della sanità.

Senza un partito nuovo, tale non perché telematico o populista o magari entrambe le cose, ma perché capace di aggregare specifici settori sociali intorno ad obiettivi condivisi, capace insomma di aggregare attorno a sé un nuovo blocco storico, per dirla con Gramsci, “egemonico” in quanto capace di contrapporsi all’attuale dominazione neoliberista, la partita della difesa della democrazia e della stessa sopravvivenza umana sul pianeta sarà persa.

Chi potrà costituire questo nuovo blocco storico, a livello planetario, nazionale, come locale, anche nel nostro piccolo Molise? Tutte le lavoratrici e i lavoratori non più disposti a barattare la salute in cambio di lavoro; tutti quegli agricoltori, vecchi e nuovi, che hanno compreso che il loro ruolo, la loro stessa possibilità di produrre reddito, passa per un agricoltura multifunzionale capace di emanciparsi dalle multinazionali delle sementi e dalla dipendenza dal settore della distribuzione, capace di presidiare e tutelare il territorio, di costruire in esso un reticolo sociale, che hanno compreso che la loro stessa vita e quella dei loro figli è strettamente legata a quella delle api. Tutti i giovani professionisti coinvolti in attività connesse alle nuove tecnologie che possono trovare collocazione, in particolare nelle aree interne, senza forti impatti ambientali e sociali; tutti gli imprenditori interessati alla produzione di beni ed alla creazione di lavoro e non alla speculazione finanziaria; Tutti quelli convinti che la diffusione dell’automazione consente e richiede una revisione degli orari di lavoro nella direzione di lavorare meno lavorare tutti; tutti quelli che sono convinti che pagare le tasse non è soltanto eticamente e legalmente giusto ma necessario per garantire servizi pubblici adeguati, per non dover morire per assenza di posti letto negli ospedali alla prima epidemia; tutti quelli convinti che una società più frugale nei consumi privati e più ricca di servizi pubblici sia migliore. Tutti gli intellettuali non compromessi con l’ordine dominante. Siamo pochi? Non credo. Ci servono soltanto strumenti di aggregazione.

Il mezzo per costruirli non può che essere, come sempre, la lotta, il conflitto sociale, senza il quale non c’è democrazia. Un conflitto certamente non violento, pacifico, pacifista ma che riporti, proprio attraverso l’azione organizzata dei corpi intermedi, la società civile a manifestare per i propri diritti, per l’affermazione di un mondo più giusto. Dove? Sulla rete? No, questa può servire magari per darci l’appuntamento per tornare fisicamente nelle strade, nelle piazze, i luoghi dai quali prima l’individualismo imperante ed oggi il Coronavirus ci hanno scacciato per rinchiuderci in casa. Ma usciremo di nuovo.

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