Città pubblico-privata

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Si parla di Campobasso e di opere ad uso collettivo, dal teatro ai centri commerciali, frutto di iniziative imprenditoriali le quali costituiscono attrezzature urbane importanti. Esse hanno supplito all’inerzia dell’amministrazione civica che in molti campi è stata latitante.

Le classiche istituzioni culturali di un capoluogo di Provincia della nuova Italia sono la Biblioteca, il Museo e il Teatro ed, in effetti, Campobasso ne risulta dotata, le prime due per iniziativa pubblica, mentre la terza ad iniziativa di un privato. La famiglia Colitti negli anni 30 dello scorso secolo rilevò dal Comune il sito del Teatro Margherita il quale a causa dei palchetti interni in legno rivestito da stucco fu colpito da un incendio che lo distrusse e su quel sedime costruì una sala teatrale interamente in muratura, dentro e fuori, concepita, dunque, per durare, inserita in una struttura architettonica più ampia che conteneva anche un albergo.

In facciata esso denuncia la destinazione teatrale attraverso motivi decorativi in stile liberty in ferro battuto. Il teatro è un tema urbano al quale corrisponde, di regola, un’unica realizzazione come succede per le attrezzature cittadine di valenza anche simbolica, pendi il municipio che non si articola in più sedi, ma che raduna le sue molteplici funzioni nel medesimo immobile; l’uno, il teatro, impersonifica la cultura (drammaturgica e musicale), l’altro la democrazia diretta.

Non ha senso l’esistenza, pertanto, di duplicati del teatro nonostante che qui da noi non sia proprietà collettiva, bensì di un imprenditore. In qualche modo nei fatti è scoraggiata la concorrenza. Non è vietato, è evidente, che vi siano ulteriori iniziative di creazione di spazi per spettacoli come testimonia la presenza per un certo numero di anni del Teatro del Genio al Fondaco della Farina. Diverso discorso è quello che riguarda i cinematografi.

Essi vengono considerati più locali di intrattenimento che di formazione culturale e da ciò ne discende l’assenza di sacralità, a differenza del teatro che incarna, come si è detto, la cultura, per cui dal punto di vista psicologico è ammessa la presenza di molteplici cinema in città. Il primo, parte integrante del palazzo ex GIL, è l’Odeon, al quale seguono, ambedue privati, il Modernissimo e l’Ariston, l’ultimo a sopravvivere al centro cittadino.

Che il cinema sia un arte popolare e non colta lo si coglie dal fatto che sono costituiti, salvo un loggione dove i posti sono economici, solo da una platea; la mancanza di palchi che venivano affittati annualmente a famiglie benestanti, un’entrata certa per il gestore di un teatro, rivela una qualche democraticità di questa attività. L’ingresso del Teatro Margherita era preceduto da un portico, piuttosto pensilina perché in sovrapposizione alla facciata, che fungeva da estensione del foyer e che non è stato replicato nel Teatro Savoia.

I porticati sono una rarità nella città ed anche essi rivelano il ruolo dei privati nella dotazione di superfici ad uso comunitario, in questo caso non al chiuso (teatro e cinema), bensì, all’aperto, o meglio parzialmente aperto essendo aree coperte. Ad eccezione del porticato del municipio il quale è pressoché una costante, tutti gli altri, cioè quelli di via Gazzani, via Mazzini e via Cavour sono annessi a palazzine private e, comunque, sono accessibili a chiunque. Non hanno un intento, per così dire, decorativo, di abbellire il fronte del fabbricato, avendo una precisa ragione funzionale, quella di permettere al passante di osservare le vetrine dei negozi pure se il tempo è inclemente.

Con i negozi si tocca un altro campo nel quale è fondamentale l’apporto dell’imprenditorialità nella vita dell’insediamento abitativo. In passato nelle metropoli l’esercizio del commercio era incentivato mediante un sostegno di natura infrastrutturale che era la costruzione delle gallerie commerciali, davvero di carattere monumentale quella di Milano, che ospitano le rivendite. Oggi l’azione è lasciata esclusivamente agli imprenditori, in particolare ai grandi gruppi imprenditoriali che predispongono l’approntamento dei centri commerciali.

Se le gallerie commerciali, ad esempio quella citata del capoluogo lombardo o quella di Napoli, erano un motivo d’orgoglio per la cittadinanza, non lo sono, di certo, i centri commerciali perché non promossi dall’amministrazione municipale, pur riconoscendone l’utilità. Mentre le gallerie pensate dall’ente locale sono inserite nel tessuto insediativo, integrate alle altre destinazioni urbanistiche, i centri commerciali si situano in periferia rifuggendo rapporti stretti con l’abitato.

Essi si collocano nel comprensorio rurale, partecipando allo sprawl edilizio, così come fanno le concessionarie automobilistiche, i magazzini dei materiali da costruzione, ecc. oltre che le tantissime villette unifamiliari che costellano l’agro campobassano. La hall di questi centri diventa una sorta di piazza la quale invece di essere un luogo aperto come nel passato sembra rifugiarsi in un edificio, quasi sospinta lì dalla pressione edificatoria che interessa l’ambito periurbano. Gli amministratori civici hanno rinunciato a creare momenti di incontro nelle zone di espansione urbanistica e così le grosse catene commerciali si impossessano della gestione della socialità che esse legano fortemente allo shopping.

Il passo che ha preceduto l’avvento di tali centri è stato quello della nascita dei supermercati che si sono posizionati nei quartieri residenziali ubicandosi nei piani terra delle palazzine e c’è stato solamente uno, la GIS di via D’Amato, che si è svincolata da fabbricati sorti ad altro scopo dei quali sfruttare il primo livello, allocandosi in un “contenitore” proprio; è un capannone, la cui essenza è la versatilità nell’utilizzo ed è un capannone ante-litteram (in realtà era) poiché antecedente all’era dei capannoni, quella che stiamo vivendo, pure il deposito ex SAM-ex ENEL di via Gazzani. Differisce da un capannone poiché non è un manufatto prefabbricato (la prefabbricazione è un metodo costruttivo che consente di aggiungere o togliere moduli per adattare l’opera alle esigenze funzionali, mutevoli nel tempo) e però ha di simile con esso l’ampia superficie libera interna che è idonea per gli spazi di vendita. Ciò nonostante si è preferito demolirlo per farne uno nuovo, da adibire comunque a supermarket.

Francesco Manfredi Selvaggi572 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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