Castello Monforte, da opera difensiva a offensiva

di Francesco Manfredi-Selvaggi

Nell’era delle armi da fuoco la rocca diventa una postazione da cui colpire i nemici, anche a distanza per via della gittata molto lunga dei proiettili dell’artiglieria. Non è, dunque, più solo un ricetto dove arroccarsi, un baluardo di difesa, ma anche di offesa. Ciò rese necessari adeguamenti del fortilizio.

Ciò che colpisce nella vista del castello Monforte, perché inusuale, sono le torri basse, tutte. Sono quattro, una per ogni angolo di questo maniero che ha una forma tendenzialmente quadrata e non è possibile che siano corte perché la loro parte superiore è, per qualche causa, crollata: è poco credibile che ognuna di esse sia stata colpita da uno stesso accidente, naturale o artificiale, capace di determinarne il crollo parziale.

Oltre che la comparazione con le altre rocche dove le torri sono di altezza, sempre, pari o superiore a quella della cortina muraria cui sono adiacenti (svettano sulle mura a Carpinone e Torella) è la presenza del redontone in sommità a denunciare l’incompletezza dell’elemento turrito. Il redontone è quel cordolo in pietra con profilo bombato (una specie di toro, il cuscino lapideo che si metteva alla base delle colonne) che suddivide in due parti, in senso verticale, sia le torri sia le pareti di una struttura castellana a partire dalla II metà del XV secolo; esso distingue una zona inferiore che è sagomata in maniera obliqua e una soprastante che è, invece, dritta.

A suffragare la tesi che non sia stato un evento involuto, bensì frutto della volontà umana, ciò che ha prodotto la ridotta elevazione delle torri è il fatto che in quel periodo si è proceduto a “cimare” le torri in tante opere fortificate, operazione che in gergo tecnico si chiamava scamozzare, dal nome dell’architetto Scamozzi il quale per primo operò simili tagli. Ebbene, nonostante le argomentazioni esposte tendenti a dimostrare che le torri qui furono oggetto di abbassamento, si è dell’opinione che a Campobasso le torri non furono decurtate, ma che esse nacquero così.

L’indizio forte che spinge a tale ipotesi è, per via degli spigoli del castello ai quali si agganciano le torri che sono, come del resto le facciate da ogni lato, a scarpa, la seguente: se le torri proseguissero verso l’alto esse si troverebbero staccate dal muro del volume principale del castello che, nel frattempo, essendo inclinato, arretra. Comunque, per quello che ora si vuole dire non cambia molto, tanto se il corpo turrito è stato accorciato quanto se è stato pensato esattamente nel modo in cui lo vediamo oggi.

In questo secondo caso, va precisato, il redontone occorre leggerlo alla stregua di una modanatura architettonica non come una componente funzionale di raccordo tra il basamento a scarpata e quanto si sviluppa sopra verticalmente, il prosieguo della torre. Il tema della taglia delle torri, o meglio sul loro taglio la cui conseguenza è il redontone trasformato in, pressappoco, un cornicione e non più linea di demarcazione, la sua mission classica, non è una questione da poco, non riguarda, infatti, un dettaglio costruttivo poiché coinvolge l’impostazione stessa dell’apparato difensivo all’indomani dell’introduzione delle armi da fuoco.

Le torri dovevano essere più spesse per resistere ai colpi di cannone, di qui la scarpa che le ingrossa, e più corte per permettere di posizionarvi le bombarde le quali erano chiamate a colpire gli avversari “d’infilata”; alla difesa piombante, quella dello scagliare sulla testa degli assalitori che tentano la scalata alla cinta muraria oggetti pesanti, se non olio bollente, si sostituì con l’avvento della polvere da sparo la difesa cosiddetta radente. Quest’ultima, anche temporalmente, tecnica di guerra consentiva di uccidere un maggior numero di nemici rispetto a quella precedente in quanto una palla di artiglieria sparata orizzontalmente riusciva a falcidiare una schiera di soldati e non più uno solo alla volta.

Poiché la gittata dei cannoni è a lunga distanza il castello diviene da macchina da difesa a macchina d’offesa. Si riducono gli scontri corpo a corpo nei quali i condottieri mettevano alla prova, secondo gli ideali cavallereschi, il proprio valore e da ciò ne consegue anche una loro perdita di status; perdita che dovettero amaramente accettare pure personaggi alla ricerca di gloria, tipo l’ambizioso conte Cola. Da strateghi di battaglie campali nelle quali ponevano in luce le virtù guerresche, mostravano il loro coraggio nel combattimento, esibivano carisma nel condurre all’attacco le truppe, evolvettero in figure assimilabili agli ingegneri militari.

Tale fu il destino di Nicola di Monforte al quale si deve l’adozione delle misure di adattamento del castello di Campobasso alla nuova arte della guerra. Tra queste vi è il ringrosso della zona basamentale dei fronti edificati con l’aggiunta di paramenti lapidei sistemati in diagonale per renderli più resistenti alle cannonate; ciò in ragione del fatto che il loro cedimento, cioè del piede, avrebbe causato la caduta dell’insieme della muratura. L’intercapedine fra la fodera esterna in conci calcarei e il muro preesistente è riempita di terra costipata e durante un intervento di restauro effettuato un paio di decenni fa sono state rinvenute in tale interspazio colmato da terreno radici di piante allignate all’interno.

Per rendere efficace l’azione delle bombarde fu decisa l’eliminazione delle case in prossimità del maniero. La demolizione delle abitazioni per un ampio raggio consentiva di avere sgombra la vista per il tiro delle artiglierie e di controllare i movimenti degli avversari. Accanto alla creazione di questa sorta di spianata il Monforte, quasi a non saper decidersi edificò un doppio circuito murario, uno minore intorno al castello e l’altro che abbracciava l’estensione totale del borgo, una soluzione avente un sapore di ridondanza.

Francesco Manfredi Selvaggi580 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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