A Guardialfiera, Francesco Jovine 70 anni dopo

di Vincenzo Di Sabato

Jean-Pierre Pisetta, intellettuale belga, esalta il crogiolo di civiltà remote del Palazzo Loreto, scopre “Sogno d’oro”, il racconto di Jovine, ora tradotto da una rivista letteraria francese

2017, tre anni fa. Il sole picchia a perpendicolo in un mezzogiorno di luglio. La strada che taglia in due il paese, è un fiume d’oro. Dalla montagna i raggi rimbalzano infuocati sui fianchi della foresta, fino a riempire le valli e il ruscello, e a fermarsi, tremolanti, dentro la piscina, al “Belvedere” di Carmela. Da lì mi telefona la titolare del B&B per conto di Jean-Pierre Pisetta, cattedratico, traduttore e intellettuale belga – folgorato a Guardia da tanta mistura di luce – appassionato di Francesco Jovine e del Molise.

Vuol vedere al Palazzo Loreto le “Orme del passato”, il leggiadro crogiolo di civiltà remote e di misteri svelati intorno al cenozoico di 40 milioni d’anni fa, testimoniati, lì dentro, dalle <pietre parlanti>. Ma anche dall’ “Estasi”,suscitata nel nostro tempo, dal capolavoro litico di Pasquale Napoli, scultore europeo. Jean vuol toccare religiosamente le “reliquie” dello scrittore guardiese: i suoi certificati esistenziali, di nascita, di battesimo, di matrimonio, di morte. Le pagelle!

Sotto le brune capriate del settecentesco Centro Studi, Jean-Pierre, sommerso “no tiempo da Gnora Ava”, percepisce una sensazione di timidezza e curiosità. Adocchia stupefatto un cimelio di Jovine, proprio di lui, Maestro Elementare a Guardialfiera: il banco scricchiolante di scuola sul quale sedevano i suoi scolari fra cui la mia mamma, nel 1923 e ’24. E la sua “Olivetti Studio-42”. Più in là, all’interno d’una teca, scopre la grafia del romanziere, il vergare a mano, tuttora nitido, impresso su 15 fogli ormai ingialliti, quand’era esule al Cairo. Pagine rare che rigano fatiche, creatività, attività e rassegnazione degli Italiani allora in Egitto. Vede anche il grosso cannocchiale di papà Angelo, perito agrimensore, con il quale scrutava la lontananza dei campi da mensurare. Legge la corrispondenza intercorsa fra lo scrittore e Nicola Perrazzelli e con don Giulio Di Rocco – sacerdote – suo figlioccio di battesimo e, a sua volta, educatore e letterato.

Ammira compiaciuto i “CD” di “Signora Ava” e “Terre del Sacramento”: splendidi sceneggiati televisivi diffusi da mamma Rai negli ultimi tre decenni del secolo scorso. E – negli scaffali – intravede la rassegna delle Tesi di Lauree e i Saggi Critici sulla figura e l’opera di Jovine e… poi la sfilata dei suoi romanzi e dei suoi racconti, tradotti anche in molte lingue, di quel nostalgico piccolo mondo antico.

Ed egli s’arresta qui. Sfoglia i testi, li scartabella in fretta, estasiato e perplesso per l’imbarazzante e difficile scelta da compiere sull’istante.“Eccola!”, esclama Pierre risoluto.“Devo affidare il compito di tradurre in francese questa storiella, a Coralie Gourdange e Piotr Verrezen della libera Università di Bruxelles. Mi attira”: <Sogni d’oro di Michele>, la sesta  novella inserita nella raccolta “Ladri di Galline”, pubblicata da “Tumminelli”nel 1940. “La sua trama è patetica. E’ pedagogica, inquietante. Agiterà i miei giovani allievi”. Il prof Pisetta scova in essa un intreccio raffinato; un affresco di personaggi sospesi fra realtà e invenzione. Poche pagine, ma belle che, secondo lui – per rigore critico – vanno stampate anche in lingua gallica e divulgate subito in Francia. E’un intrigo con effetti di bellezza narrativa, gradita a quei lettori d’oltralpe. Soprattutto perché il racconto, incredibilmente, è ambientato fra le pietre all’interno delle nostre Cave di Vallecupa a Guardialfiera, dove Michele, deriso e asservito – con altri affaticati e oppressi – mordicchia pane e cacio, sotto il grugnito profondo di Middio, nel simbolo eterno d’una umanità ingenua offesa e uccisa.

L’intreccio è intessuto tutto in quel drappo di spelonche, sopra il brusio del Biferno, fra le rocce e le venature sanguigne di pietra noce. Pietre industriali, artigianali, artistiche, la cui estrazione e lavorazione, per lunghi secoli – massacranti e fecondi – hanno segnato l’orgoglio e la“fons vitae” per il nostro popolo d’allora, per quei nostri spaccapietre, mulattieri, scalpellini, scultori.

Cave gloriose! Adesso impietosamente in abbandono che, a stento, sopravvivono lì per la caparbietà di Emilio Prezioso, e qui, per la presenza di “Pietre Parlanti” al Palazzo Loreto.

Ne discendo, alfine, dopo momenti di beatitudine, vissuti assieme a Jean-Pierre a cui chiedo – concedandoci – il suo recapito telefonico, utile, se non altro, a coltivare l’amicizia e seguire l’evoluzione del suo progetto. Egli stesso me lo annota  sulla mia agenda.

Sennonché, ad ogni mio squillo. la centralinista – dall’altro capo – ripete inalterabile: “il numero selezionato è inesistente!” Né ormai contavo più sul compimento dell’impresa. Nei giorni scorsi, invece, Giovanni Mascia (studioso di storia, letteratura, tradizioni, dialetto) mi trasmette un suo articolo, minuzioso, intenso, con questo titolo: “Dalla Francia, un atto di amore per Francesco Jovine”. 

Si tratta della pubblicazione, a sorpresa, da parte di una prestigiosa rivista letteraria, di “Sogni d’oro di Michele” (Les beaux reves de Michele). Il sospirato taccuino creativo di Jovine, rivisto dai transalpini e ritornato in qua, come “dal cielo in terra a miracol mostrare”. Proprio questo tempo di totale solitudine, a contribuire al rimpiazzo delle cerimonie ufficiali del 30 aprile, per il 70° della morte di Francesco Jovine. Celebrazioni pubbliche impedite dall’ombra nera del Coronavirus.

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