Vi racconto il mio caro Alfré’, alias Fred

Tutti I giornali parlano oggi di Fred Bongusto e stamane quando ho appreso della sua morte ho preso il CD di “Campobasso e il Gabbiano” una specie di testamento artistico, me lo aveva regalato quando compì 60 anni. Troppo struggente, non ce l’ho fatta. Poi mi è stato chiesto un ricordo, un pezzo (in gergo “coccodrillo”) da giornalista suo concittadino. Non riesco a farlo in questa veste, ma è una perdita che mi tocca troppo da vicino per rifiutarmi. Tento dunque a caldo, con la commozione che comporta, il rimettere insieme brani di vita in comune.

Inizio dal padre di Alfredo, Giuseppe Buongusto, sottufficiale di Marina morto in Grecia nel 1942, che conobbi da ragazzino perché la sua totale passione per la musica, lo spingeva spesso a casa nostra in via Scatolone per implorare a mio padre: “Maestro, vi prego, solo cinque minuti, sono impazzito per una canzone che quasi spaccavo la radio, fatemela sentire”. Era dunque paterno il DNA musicale di un figlio che diventerà celebre.

Non sono mai riuscito a chiamarlo Fred, ma solo Alfré’. Per lanciarlo la casa discografica tolse la “u” a Buongusto e scelse l’americaneggiante diminutivo di “Al” per nome. Alfredo rifiutò: “A prescindere da Al Capone – mi spiegò – Al Bongusto era l’insegna di un ristorante, meglio Fred”. Fino all’ultima volta che ci siamo sentiti (penosamente per la sua sordità), l’ho sempre chiamavo Alfrè’, e lui Peppì’, per il vezzo di compiacerci del nostro dialetto, come dire: vedi che non rinnego le mie radici? che sono sempre lo stesso? che lo “show business” non mi ha corrotto?

“Sono del segno Ariete – mi disse – quello di chi sogna di andar lontano, di chi riesce a lavorare fino all’alba”, alludendo alle massacranti perfomance nei night club della dolce vita che lo resero famoso. Alfredo era una persona adorabile, gentile, sensibile, mai sguaiato, amava la cultura, l’arte, la grafica, lo sport (due ore al giorno) e da giovane il calcio (“avevo il fisicaccio giusto, ero un centromediano quotatissimo, ho giocato con la Libertas e la Virtus”). Era generoso, aveva un pessimo rapporto col denaro. In passato c’incontravamo spesso, una sola volta portò a cena la moglie Gaby. Subì un furto in casa, gli rubarono tutto, valuta e preziosi. Non ne fece una tragedia, si rimise in sesto contraendo debiti con una banca molisana.

Fu prezioso il suo fraterno amico e compagno di scuola, Ludovico Socci, nel fargli da manager e press agent liberandolo da pratiche e contatti che incombono sulla vita di un artista. Altro suo compagno di scuola, il più illustre, fu Gaetano Scardocchia che scrisse, musicato da Buongusto, un “Inno del Mario Pagano” (Siam del liceo/sui volti brilla/alto l’annunzio/di nostra età…). Decenni dopo s’incontrarono nel camerino di un teatro di Torino: Gaetano direttore de “La Stampa”, Alfredo cantante affermato e adorato dal pubblico.

Quando nel novembre del 1993 promossi al Savoia di Campobasso un Memorial per il ventennale della morte di Gaetano, chiamai Alfredo: non si fece pregare, piantò ogni impegno e venne a testimoniare. Poi mi disse: “Ma sai che è la prima volta che salgo alla ribalta di questo teatro?”
Un po’ ce l’aveva con Campobasso, la città dove, mi disse, “nei negozi di dischi non esisto”, quasi per una sindrome di nemo propheta in patria. Gli si rimproverava di aver venduto casa a Vinchiaturo per andarsene a Ischia e di aver fatto il consigliere comunale socialista a Bari. E poi quel Molise puozz’esse’ accise. Lo chiamai per chiedergli: dicono che fai una guerra sorda alla città. Trasecolò: “Una Guerra? Ma come si fa ad essere in guerra con una città, con la tua città. Se mai ci fosse, direi subito, facciamo la pace. Scherziamo? Il Molise mi ha insegnato tutto, anche quella cosa speciale che si chiama malinconia”.

Ammise di “aver preso le distanze” di aver riscontrato “una certa freddezza”, per aver disertato feste di una “certa borghesia abbiente”, per venire in Molise “solo per vedere la madre e la sorella”. Poi mi confessò: “in verità io sono una creatura solare e da bambino ho sofferto troppo freddo. A Ischia rinasco. Adoro il Brasile”. Quanto al Puozzesse’ accise’ non aveva dubbi: “Tutti hanno capito che è una provocatoria dichiarazione d’amore per la mia terra”. I suoi amici del cuore erano l’avv. Pietrunti (Tonino), il geometra Fagnano (Peppino) e il prof. Oriunno (Paolino, al quale fece prendere casa a Ischia). Una volta gli chiesi cosa saresti oggi se fossi rimasto nel Molise? “Non so, credo troppo nel destino, ma chissà oggi come oggi, sarei un incazzato!”

Ma il ricordo che più ci legò per tutta la vita fu quando demmo vita a una band giovanile innamorata di jazz. Ci guadagnammo I primi soldini battendo sposalizi, compleanni e sale da ballo (quella del Roxy su tutte). Io ero al piano, Gennaro Oriunno (fratello di Paolino) al sax, Antonio Izzi alla batteria, Fortunatino Aurisano alla tromba e Alfredo alla chitarra (acquistata da Paradiso & Luciani grazie alle duemila lire di suo zio Alfredo Pulcini). Gli dicevo: “Alfré’ ma hai una voce così bella, velata, alla Nat King Cole, ma pecché nun vuo’ cantà!?” Opponeva sempre un testardo rifiuto, finché un giorno confessò: “Pecché me mett’ scuorn”. Capito? C’è stato un tempo in cui il crooner simbolo degli anni ‘60 si vergognava di cantare.

Una decina di anni fa venne a trovarmi a casa per parlarmi di un progetto: voleva che collaborassi alla stesura di un suo libro di ricordi. Prendemmo accordi, gli diedi dei consigli preliminari, di appuntarsi ricordi, reperire dati, incontri, aneddoti, ecc. Ci risentimmo vari giorni dopo, poi più nulla.. Confesso che mi è dispiaciuto molto. Avevo già in mente un attacco del libro. Questo: «Il 31 dicembre 1968, ultimo giorno del primo anno di contestazione giovanile, cinquecento seguaci di Adriano Sofri attaccano a colpi di arance marce il più famoso locale della Versilia, “La Bussola”, che per il veglione di S. Silvestro ha in cartellone due star: Shirley Bassey e Fred Bongusto..

Giuseppe Tabasso331 Posts

(Campobasso 1926) ha due figli, un nipotino e una moglie bojanese, sempre la stessa dal 1955. Da pianista dilettante formò una band con Fred Bongusto. A suo padre Lino, musicista, è dedicata una strada di Campobasso. Il Molise è la sua Heimat. “Abito a Roma - dice - ma vivo in Molise”. Laureato in lingua e letteratura inglese, è giornalista professionista dal 1964. Ha iniziato in vari quotidiani e periodici (Paese sera, La Repubblica d’Italia, Annabella, Gente, L’Europeo, Radiocorriere). Inviato di politica estera per il GR3 della RAI, ha lavorato a Strasburgo e Bruxelles, a New York presso la Rai Corporation e a Londra e Colonia per le sezioni italiane della BBC e della Deutschland Funk. Pubblicazioni: Il settimanale con Nello Ajello (Ediz. Accademia, Roma 1978); Facciamo un giornale (Edizioni Tuttoscuola, Roma 2001); Il Molise, che farne? (Ed. Cultura & Sport, Campobasso 1996); per le Edizioni Bene Comune; Post Scriptum, Prediche di un molisano inutile ( 2006); Gaetano Scardocchia, La vita e gli scritti di un grande giornalista (2008); Moliseskine (2016). In corso di pubblicazione Fare un giornale, diventare giornalisti, Manuale di giornalismo per studenti, insegnanti e apprendisti comunicatori.

1 Comment

  • Carolina Mastrangelo Reply

    9 Novembre 2019 at 16:58

    Giuseppe Tabasso, non mi stanco mai di leggere i tuoi articoli perchè sonobelli, perchè sono veri, perchè dentro ci batte il cuore.

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