La storia insediativa come un andirivieni tra collina e pianura

di Francesco Manfredi-Selvaggi
Le differenti civiltà che si sono succedute in età antica nel nostro territorio hanno lasciato differenti impronte su questo della loro presenza. Ci stiamo riferendo, le impronte, agli insediamenti abitativi che nell’era sannitica e in età tardo antica erano collocati sulle alture, mentre nel periodo romano erano localizzati in pianura. Si stava sulla cima dei colli per ragioni difensive, le motivazioni dell’arroccarsi sui rilievi sono le stesse nei due diversi momenti storici: in quello più remoto è che il Sannio era continuamente in guerra con l’Urbe, in quello successivo alla caduta dell’Impero è che si attraversò una lunga fase di instabilità politica.
Con la pax augustea e già prima durante la Repubblica la popolazione vive nel piano e ciò perché Roma ha ormai debellato gli Italici e quindi sono venute a cadere le esigenze di protezione, ciò che conta per i Romani non è la difendibilità dei singoli nuclei abitati bensì la rapida raggiungibilità delle province dalla sede del dominio imperiale, con veloci spostamenti delle truppe in caso di sommosse per assicurare l’ordine. Lo Stato romano non punta su una difesa, è proprio il caso di dirlo, per punti come le società che lo hanno preceduto, i recinti fortificati, e in seguito le “terre murate”, una difesa affidata ai piccoli gruppi che li vivono; esso ha una visione, per l’appunto, statuale ovvero globale della sicurezza territoriale, del controllo della struttura sociale, vede la difesa in ottica unitaria, non c’è spazio per autonome iniziative a scala locale.
Il rapido muoversi delle truppe, favorito dallo svolgersi dei percorsi in zone pianeggianti, permetteva un controllo generale, esercitato con continuità su tutto l’ambito sottomesso, con interventi repressivi “in tempo reale”, non solo, per capirci, in luoghi prefissati. È un dubbio legittimo quello sulla veridicità di quanto si sta affermando, suscitato dalla presenza di una notevole cinta muraria a Saepinum. Le mura sono la “facciata” della città rivolta verso l’esterno, una sorta di ornamentazione urbana piuttosto che spalti di un fortino per via dell’accuratezza della tessitura muraria, un disegno “prezioso” del paramento. Poi, causa ed effetto del crollo del mondo romano, vennero i barbari i quali lasciarono andare in deperimento l’infrastrutturazione creata da Roma.
Riemerse ciò che la dominazione romana aveva seppellito o di cui almeno credeva di aver sepolto le tracce; così da Altilia si tornò a riabitare Terravecchia, da Boiano Civita Superiore, quasi una rifondazione del sistema insediativo. Le prime invasioni barbariche interessarono la nostra regione solo quale luogo di passaggio, in effetti siamo una “terra di mezzo”, è il caso dei Goti che discesero la Penisola per affrontare i Bizantini, la guerra greco-gotica che secondo una fonte storica ha coinvolto Casalpiano a Morrone del Sannio. Popoli del Nord che attraversarono il Molise senza attestarvisi, non vi sono testimonianze di forme di popolamento legate a queste genti, non è leggibile nel palinsesto della struttura insediativa regionale indizi che ci riconducano a tali presenze, manca uno strato nella stratigrafia di segni antropici impressi sul suolo molisano legato a questi gruppi etnici.
In definitiva, c’è lo strato sannita, quello romano e poi vi è una lacuna corrispondente al tempo delle invasioni barbariche, un buco nero. Il predetto iato è colmato, però solo in minima parte, dalle fattorie eredi delle ville rustiche latine che diedero vita alla cosiddetta economia curtense costituendo dei presidi umani capaci di fornire un minimo di servizi civili agli uomini dei “secoli bui” dell’Alto Medioevo (c’è una certa assonanza tra buco e buio). I Benedettini i cui complessi monastici costituirono preziosi riferimenti per le comunità altomedioevali vennero solamente dopo e si innestarono proprio su quelle masserie le quali a loro volta si erano impiantate sulle ville rurali del tardo impero; esempi si trovano a Canneto, a S. Vincenzo al Volturno, a S. Maria di Casalpiano.
Questo è un quadro generale ora vediamo la specificità di Altilia con riferimenti, per quanto attinenti, a ciò che si è detto sopra. La configurazione odierna di Altilia è la stessa di quella che avremmo visto all’indomani delle scorrerie dei barbari, poco è mutato. Non è stato necessario per far riemergere i resti della città romana eliminare livelli insediativi sovrappostivisi perché non ve ne sono stati (le casette dei contadini che sono roba abbastanza recente occupano poco spazio). Non si può parlare di “vuoti” come si è fatto prima perché non vi sono “pieni” successivi stratigraficamente ragionando.
È ben diverso, per capire, da quanto è successo a Roma dove è stato necessario liberare i monumenti dell’antichità dalle incrostazioni di epoca medioevale e moderna. È Altilia abbastanza un unicum tra i siti archeologici perché ci è pervenuta così come doveva apparire alla fine delle incursioni delle tribù nordiche; è quella attuale una fotografia realistica della situazione di questa realtà urbanistica il giorno seguente all’eclisse dell’impero romano determinata dai barbari, le uniche modifiche che ha subito sono dovute al degrado causato dal trascorrere del tempo. È un paesaggio, urbano che rievoca l’antichità, la riduzione a rudere dei manufatti architettonici rimanda di per sé stessa a un passato remoto.
Non è una sensazione che si prova altrove, perlomeno dove si registra una continuità di vita dell’insediamento. Le rovine ci sollecitano a riflettere sul deterioramento che gli anni, i secoli e anzi, in questo caso, i millenni producono sugli artefatti antropici, in qualche modo, sulla vacuità delle creazioni dell’uomo. È un’immagine forte questa dei resti delle civiltà associata com’è alla vacuità, all’essere vane, delle cose del mondo, alla caducità della nostra stessa esistenza che ne fa un’autentica icona. Altilia assurge così, cristallizzata con le sue macerie com’è ad un’era antichissima, a simbolo della fragilità delle realizzazioni terrene e la visita al sito costituisce un’esperienza oltre che culturale spirituale.

Francesco Manfredi Selvaggi690 Posts
Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.
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