Protesi ai ruderi, chirurgia estetica per beni culturali

di Francesco Manfredi-Selvaggi

 

La regola da rispettarsi sarebbe quella che le aggiunte ai resti archeologici non siano predominanti rispetto a questi e non è sempre stato così. Vi è stata una libera reinterpretazione del concetto di anastilosi operazione che prevede il rimontaggio dei pezzi crollati e, magari, qualche integrazione agli stessi e non l’opposto (Ph. F. Morgillo-Piana dell’Angelo resti del tempietto italico)

Esistono diversi generi di restauro, qui ci occupiamo prevalentemente del restauro degli edifici allo stato di rudere. Cominciamo subito con la categoria di intervento chiamata del “minimo intervento” la quale, a volte, è equivalente a “nessun intervento” per esplicitare la quale ci avvarremo come esemplificazione delle mura urbiche di Altilia, il quadrante del quadrilatero murario che ci interessa è quello sud-est. Quel che rimane qui della murazione originaria è la sua parte inferiore per cui essa si presenta bassa, e ciò a causa del crollo della sua parte superiore e nel contempo inclinata, la causa di entrambe le cose, la ridotta altezza e la sua inclinazione, forse è stata un terremoto.

È un’immagine che si è consolidata nel tempo e costituisce qualcosa d’effetto, una visione singolare; non si capisce il perché della costruzione a lato di quello preesistente di un muro ex-novo con le medesime caratteristiche formali dell’antico il quale per fortuna non è stato rimosso. Il nuovo muro ha la medesima altezza di quello sopravvissuto ed è raddrizzato rispetto a questo e non si capisce il perché, tanto valeva visto che è un’operazione di sostituzione edilizia non di restauro rifarlo integralmente, identico ai tratti di muratura, quello in prossimità di Porta Boiano, pervenutici intatti.

Tutto quello che si era fatto in passato sulla muratura rimasta pendente è stato ben poco, in verità poco quanto basta; l’operato consiste nella protezione della sommità dell’opera muraria pervenutaci con materiale simile al cocciopesto e un telo di tenuta per evitare la penetrazione dell’acqua piovana al suo interno, nella sua “carne viva”, né più né meno. Una seconda categoria è quella della “reintegrazione”, una tipologia di azione restaurativa che vediamo attuata, in modo significativo, nella Porta Benevento. Qui ciò che è stato reintegrato è assolutamente preponderante rispetto a quanto c’è di superstite.

La predetta porta urbica appare essere un modello, in cemento, a scala 1:1, una specie di replica della Porta Boiano, della porta-tipo di Altilia le cui porte sono uguali fra loro. La Porta Benevento manca del frontone (e lì a terra e in attesa di essere ricollocato in cima all’arco) e vi sono inseriti pochissimi, appunto, inserti, rimasugli della porta che vi doveva essere in origine. Una terza categoria è la “ricomposizione” che è quella, la si cita quale esempio, che si potrebbe eseguire dei ruderi della chiesa di S. Maria di Guglieto a Monteverde fra Vinchiaturo e Mirabello. Non la si è tentata finora, salvo un tentativo fatto nella zona absidale, e, però, sarebbe opportuno tentarlo perché la sua riduzione in frammenti sparsi non consente la benché minima comprensione delle fattezze che essa doveva avere; da ricordarsi che il restauro ha come obiettivo anche quello della leggibilità del bene, del rendere facile la sua lettura.

Ciò non ci spinge a dire che è, comunque, anche quello di permettere il godimento dei valori artistici che è un’altra cosa, una faccenda più complessa, non lo si può pretendere da un intervento di mera ricomposizione. La scelta di non ricomporre alcunché, neanche ciò che sarebbe assai facile rimettere su sembra dettata da una concezione estetizzante dell’approccio all’antico. L’ottica preromantica del Foscolo con i suoi Sepolcri vedrebbe un campo di rovine come un camposanto. Secondo le teorie rigoriste del restauro architettonico è apprezzabile in sé la rovina rimandando essa al disfacimento delle opere dell’uomo dovuto al trascorrere del tempo.

Di categorie ce ne sarebbero di ulteriori ma si ritiene di non dover proseguire nella loro elencazione la quale ha il sapore, per l’appunto, di categorizzazione del restauro e passare all’esame di alcuni temi connessi alla conservazione del patrimonio storico allo stato ruderale; per ogni caso si dovrà individuare il più opportuno criterio o categoria (guarda un po’) di restauro. Un primo caso è quello di rovine in stato di abbandono, rovine in rovina per così dire, le quali si dividono in due gruppi. Il gruppo numero 1 è quello di vecchi scavi abbandonati e l’esempio è la villa romana di Matrice nei pressi di S. Maria della Strada la cui escavazione venne iniziata alcuni decenni fa da archeologi inglesi e mai completata per cui ora ciò che era riemerso dalla terra è ricoperto nuovamente da terra oltre che da vegetazione spontanea.

Il gruppo numero 2 è quello delle evidenze archeologiche mai indagate, né a fondo né in superficie, come quel che resta in vista, una piccola abside, del monastero di San Nicola sul Matese in località giustappunto Fonti di S. Nicola. Sta in effetti in un vallone impervio ma è raggiungibile con un sentiero comodo e oggi che tanto si punta sull’escursionismo sarebbe un’emergenza culturale da valorizzare per promuovere possibili itinerari montani. Nei punti visitati dai turisti, si pensi alla cinta fortificata sannitica che è in collegamento con il santuario di Pietrabbondante oppure a Casalpiano con ciò che rimane di una villa appartenente ad una matrona romana affiancata alle consistenti tracce, assai imponenti di una chiesa medioevale oltre che a un bell’edificio di culto romanico le testimonianze dell’antichità stanno lì linde e pinte, ben curate, mentre altrove sono ignorate o addirittura invisibili, a rischio di deperimento, “figlie di un Dio minore”. C’è poi l’archeologia industriale quale nuova frontiera dell’interesse archeologico, ma è tutta un’altra storia, un problema più di economia forse che di cultura, anche se spettacolari sono alcuni manufatti della paleoindustria come la Cartiera di Sepino.

Francesco Manfredi Selvaggi688 Posts

Nato a Boiano (CB) nel 1956. Ha conseguito la Maturità Classica a Campobasso e poi la laurea in Architettura a Napoli nel 1980. Presso la medesima Università ha conseguito il Diploma di Perfezionamento in Storia dell’Arte Medievale e Moderna e il Diploma di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti. È abilitato all’esercizio della professione di Architetto e all’insegnamento di Storia dell’Arte nei licei e Educazione Tecnica nelle scuole medie. Dal 1997 è Dirigente, con l’attribuzione di responsabilità nei servizi Beni Ambientali (19 anni), Protezione Civile, Urbanistica, Sismica, Ambiente. Ha avuto un ruolo attivo in associazioni ambientaliste quali Legambiente Molise, Italia Nostra sezione di Campobasso e Club Alpino Italiano Delegazione del Molise. Ha insegnato all’Università della Terza Età del Molise ed è stato membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Campobasso, occupandosi all’interno dello stesso del progetto di Archivio dell’Architettura Contemporanea. È Giornalista Pubblicista e autore di articoli, saggi e del volume La Formazione Urbanistica di Campobasso. Le ultime pubblicazioni sono: «Le Politiche Ambientali nel Molise» (2011) e «Problemi di tutela ambientale in Molise» del 2014.

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